L`OSSERVATORE ROMANO
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L’OSSERVATORE ROMANO
POLITICO RELIGIOSO
GIORNALE QUOTIDIANO
Non praevalebunt
Unicuique suum
Anno CLVI n. 71 (47.206)
Città del Vaticano
domenica 27 marzo 2016
.
Preghiera di Papa Francesco al termine della Via crucis al Colosseo
Le croci dell’umanità
Nel terrorismo, nei venditori di armi, nei volti dei profughi e dei perseguitati
La croce di Cristo è impressa oggi nei mille volti
della sofferenza e della miseria dell’uomo. A quella croce — «simbolo dell’amore divino e dell’ingiustizia umana, icona del sacrificio supremo per
amore e dell’egoismo estremo per stoltezza, strumento di morte e via di risurrezione, segno
dell’obbedienza ed emblema del tradimento, patibolo della persecuzione e vessillo della vittoria» —
Papa Francesco ha rivolto lo sguardo al termine
della Via crucis presieduta al Colosseo nella tarda
serata del 25 marzo, Venerdì santo.
A conclusione delle quattordici stazioni, scandite dalle meditazioni scritte dal cardinale Gualtiero
Bassetti, il Pontefice ha recitato una lunga e intensa preghiera da lui stesso composta. Un grido
di dolore e una denuncia delle tragedie che feriscono l’umanità, lasciando nel cuore del nostro
tempo il segno ancora vivo della croce di Cristo.
Nell’invocazione di Francesco è risuonato il
dramma dei tanti fratelli e sorelle «uccisi, bruciati
vivi, sgozzati e decapitati con le spade barbariche
e con il silenzio vigliacco». Il Papa ha dato voce
all’angoscia dei «bambini, delle donne e delle
persone, sfiniti e impauriti che fuggono dalle
guerre e dalle violenze e spesso non trovano che
la morte e tanti Pilati con le mani lavate». Ha
evocato l’immagine inquietante del Mediterraneo
e dell’Egeo «divenuti un insaziabile cimitero, immagine della nostra coscienza insensibile e narcotizzata». Ma ha anche additato i fondamentalismi
e il terrorismo «dei seguaci di qualche religione
che profanano il nome di Dio e lo utilizzano per
giustificare le loro inaudite violenze». E ha condannato il cinismo dei potenti e dei mercanti di
armi «che alimentano la fornace delle guerre con
il sangue innocente dei fratelli».
Con accenti di speranza il Pontefice ha pregato
poi per gli innumerevoli testimoni dell’amore e
della giustizia che lavorano per il bene della
Chiesa e del mondo. E ha concluso ricordando
che «l’alba del sole è più forte dell’oscurità della
notte».
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Confermati dalle indagini i collegamenti tra le stragi di Parigi e Bruxelles
Unica trama del terrore
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BRUXELLES, 26. Resta alta la tensione a Bruxelles dove si susseguono i
blitz antiterrorismo delle forze di sicurezza in varie zone della città.
Quello scattato questa mattina nel
quartiere di Bascule era un falso allarme bomba. Lo riferisce il quotidiano «Dernière Heure», sottolineando che è stato fatto brillare
uno zaino lasciato incustodito davanti a una profumeria. Per precauzione tutta la zona è stata transennata, gli edifici sono stati evacuati e
i trasporti pubblici bloccati. E in
mattinata è stato formalmente accusato di terrorismo e strage il giornalista free lance, Faycal Cheffou. Il
giudice istruttore ha emanato il
mandato d’arresto: Cheffou è stato
riconosciuto dal tassista come l’uomo con il cappello del gruppo terroristico all’aeroporto di Zaventem.
La popolazione di Bruxeles cerca
comunque di reagire a questo clima
di terrore. Lunedì si terrà nella cattedrale una veglia ecumenica a partire dalle 18 in memoria delle vittime degli attentati e per le famiglie
colpite. A lanciare l’invito sono stati
l’arcivescovo di Malines - Bruxelles,
Josef De Kesel; il metropolita Athénagoras del Belgio; il presidente del
Consiglio sinodale della Chiesa protestante unita, Steven H. Fuite; il
presidente del Sinodo federale delle
Chiese protestanti ed evangeliche,
Geert W. Lorein; il presidente del
Comitato centrale del culto anglicano, Jack MacDonald.
E ieri, durante la preghiera del
venerdì, nella Grande Moschea di
Bruxelles l’imam Ndiaye Mouhameth Galaye ha lanciato una dura condanna degli attentati, chiedendo a
tutti i fedeli di «agire» contro il radicalismo.
Un pensiero ai belgi e alle famiglie delle vittime degli attacchi di
Bruxelles è stato rivolto dal presidente statunitense, Barack Obama,
durante il consueto discorso settimanale, dedicato alla lotta per sconfiggere il cosiddetto Stato islamico
(Is). «Il Belgio — ha detto Obama
— è un amico e un alleato degli Stati Uniti. E quando si tratta dei nostri amici, l’America copre loro le
spalle. Specialmente nella lotta alla
piaga del terrorismo».
L’America «continuerà a stanare
e sconfiggere l’Is», ha proseguito il
presidente statunitense. «Abbiamo
colpito i vertici dell’Is e questa settimana abbiamo rimosso permanentemente dal campo di battaglia uno
dei loro leader». Nel suo discorso
radiofonico Barack Obama ha anche sottolineato che l’Fbi è in Belgio a sostegno delle indagini in cor-
Le parole di Paolo
VI
Per la prima Pasqua
dopo il concilio
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so e che è in atto un potenziamento
della cooperazione.
E quanto il terrorismo sia un fenomeno oramai globale lo conferma
l’attacco di cinque giorni fa a Bruxelles, sede di numerose istituzioni
europee. Come a Parigi l’obiettivo è
stato lo stesso: fare il maggior nu-
Agenti della forze dell’ordine belghe durante un’operazione a Bruxelles (Ansa)
mero di morti. E ad agire è stata la
stessa cellula terroristica. Più passano le ore e meglio si definisce infatti l’unica trama del terrore che dal
Belgio si estende alla Francia, ma
che si ritiene potrebbe arrivare al
capitolo finale. Ne è convinto il
presidente francese, François Hollande: la cellula terroristica che ha
colpito negli attentati di Parigi e
Bruxelles sta per essere «annientata», ha detto ieri, anche se potrebbero essercene altre.
Le indagini nelle due capitali
proseguono, si intrecciano e continuano a dare frutti. Lo dicono gli
arresti delle ultime 24 ore. Le connessioni tra gli attentatori dei due
Paesi sono sempre di più, ed è forse
ciò che spinge Hollande a un cauto
ottimismo: il domino sta venendo
giù, perché sono quasi tutti amici o
parenti, coperti da una rete di quartiere che va da Molenbeek a
Schaerbeek o poco più in là. Ad
esempio, l’attentatore fermato ad
Argenteuil, periferia di Parigi, è Reda Kriket, reclutatore di jihadisti in
Belgio, che mandò in Siria anche
Abdelhamid Abaaoud. Proseguendo
con i legami, è di ieri la conferma
che uno dei due attentatori suicidi
dell’aeroporto di Zaventem, Najim
Laachraoui, è l’artificiere del gruppo, che ha preparato anche le cinture esplosive usate a Parigi. Il suo
DNA è stato ritrovato su un frammento di tessuto recuperato al Bataclan.
Un bambino nel campo profughi di Idomeni (Afp)
I rifugiati e l’Europa
Un’occasione irripetibile per passare dalle parole ai fatti
di GUALTIERO BASSETTI
iorgio La Pira ripeteva spesso che «i veri materialisti
siamo noi che crediamo nella risurrezione di Cristo». Per il sindaco di Firenze, che aveva riscoperto la fede proprio nella notte di Pasqua del 1924 — quando, dopo la
comunione, sentì «nelle vene circolare una innocenza così piena, da
non poter trattenere il canto e la felicità smisurata» — questa provocazione, con cui si faceva beffe degli
ideologi marxisti di ogni grado e latitudine, assumeva un duplice significato.
Da un lato, ribadiva con forza il
cuore della fede cristiana — la risurrezione della carne — come evento
incontrovertibile, al tempo stesso,
storico e futuro. E, dall’altro lato,
apriva immediatamente una riflessione sulla dimensione sociale del
cristianesimo. Ovvero, su una fede
che, coerentemente, inclina a prendersi cura di quello che Cristo stesso ha amato. «Cristo è anche uomo? Ma allora le cose dell’uomo sono cose di Cristo: i valori dell’uomo
sono valori di Cristo: le pene e le
G
gioie dell’uomo sono pene e gioie di
Cristo».
Le «pene e le gioie» a cui faceva
riferimento La Pira sono oggi simbolicamente racchiuse in questo
giorno di Pasqua. Gioia immensa
per il Risorto e dolore inesprimibile
per uno dei fenomeni più drammatici e complessi della modernità:
quello dei rifugiati, degli sfollati e
dei richiedenti asilo. Drammatico
per le durissime condizioni di vita
di quei circa 60 milioni di uomini e
donne in fuga dalla propria casa;
complesso perché si scontra con un
sentimento profondo dell’animo
umano: la paura. La paura del diverso, dello straniero, del migrante.
«La croce di Cristo — ha detto ieri
Francesco durante la Via crucis — la
vediamo nei volti dei bambini, delle
donne e delle persone, sfiniti e impauriti che fuggono dalle guerre e
dalle violenze e spesso non trovano
che la morte e tanti Pilati con le
mani lavate».
Oggi, in molte regioni del mondo, i campi profughi sono ormai diventate delle città invisibili. O meglio: delle città tragicamente visibili
per chiunque vi entri in contatto,
ma totalmente assenti dalle cartine
geografiche. Eppure in molti casi,
questi rifugi provvisori si sono ormai trasformati in luoghi di abitazione permanente. Si pensi, per
esempio, ai campi dei rifugiati Saharawi nel deserto algerino che esistono addirittura dal 1976.
I campi dei rifugiati sembrano
rappresentare, dunque, l’emblema
doloroso di una Pasqua incompiuta.
La strada del calvario sembra non
essere ancora finita. Le condizioni
in cui si trovano a vivere questi esuli
assomigliano molto di più a un «inferno», come ha scritto proprio ieri
questo giornale, che a un lembo di
Paradiso. Le notizie che arrivano
dai campi dei rifugiati in Grecia, da
Lesbo o da Idomeni, sono spaventose. Una distesa di fango e disperazione ai margini dell’Europa. Una
distesa di miseria e dolore in bilico
In occasione delle festività pasquali
il nostro giornale non uscirà.
La pubblicazione
riprenderà con la data 29-30 marzo.
tra l’indifferenza e molte parole al
vento.
Tuttavia Papa Francesco, prima di
lavare i piedi ai profughi del Cara
di Castelnuovo di Porto, ha detto
che «i gesti parlano più delle immagini e delle parole». Ecco, la Pasqua
ci invita a «passare» dalle parole ai
fatti. Ci esorta a prendere cura degli
ultimi. Ci invita ad agire. Soprattutto per un’Europa che sembra sempre più in difficoltà, stretta tra una
crisi economica infinita e una profonda crisi di valori. Paolo VI, in
tempi non sospetti, ci invitava a riscoprirne l’anima. San Giovanni
Paolo II e Benedetto XVI, ci esortavano a riconoscerne le radici.
E allora quale miglior momento
di questo per costruire concretamente un’Europa diversa, solidale e più
umana? Quale migliore momento
per dare un significato forte al volontariato internazionale? Quale migliore momento per le popolazioni
europee — ma non solo per loro —
di andare in soccorso verso chi è
sofferente nei campi dei rifugiati e
riscoprire, in questo modo, anche
l’anima
profonda
e
l’identità
dell’Europa?
Moltissimi, oggi, evocano la ricerca di un’identità europea. Le identità, forse, si studiano sui libri ma, di
sicuro, si costruiscono sul campo
concreto della storia. Questa è
un’occasione irripetibile.
NOSTRE
INFORMAZIONI
Il Santo Padre ha nominato
l’Eminentissimo Cardinale Zenon Grocholewski, Prefetto
emerito della Congregazione
per l’Educazione Cattolica,
Suo Inviato Speciale al Congresso Eucaristico Nazionale
della Bielorussia che, in occasione del 25° anniversario
dell’erezione della Diocesi di
Grodno, sarà celebrato nella
città di Grodno nei giorni 2426 maggio 2016.
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domenica 27 marzo 2016
Barcone di migranti accolto
da volontari
sull’isola greca di Lesbo (Ap)
ROMA, 26. Fine settimana segnato
ancora una volta dal sangue dei migranti. La Guardia costiera libica ha
annunciato ieri che dodici cadaveri
sono stati rinvenuti lungo la costa di
Garabulli, quasi 75 chilometri a est
della capitale Tripoli. «Si tratta di
migranti che si stavano dirigendo
verso l’isola di Lampedusa» ha detto
l’ufficiale della Guardia costiera libica, Abdullatif Al Munir, spiegando
che il naufragio è avvenuto alcuni
giorni fa.
Resta alta, intanto, la tensione nel
campo profughi di Idomeni, al confine tra Grecia ed ex Repubblica jugoslava di Macedonia, dove ieri sono giunti venti autobus che dovrebbero iniziare a trasferire i migranti
(circa 12.000) da settimane accampati al confine nella speranza di una
prossima riapertura della rotta balcanica verso il nord Europa. All’arrivo
degli autobus molti migranti hanno
inscenato proteste: hanno detto di
non volersi trasferire in nuovi campi,
temendo di essere rispediti indietro,
verso le coste turche. Secondo i media greci, i bus — uno solo sarebbe
riuscito a partire carico — dovrebbero trasferire circa mille persone nei
campi attrezzati di Pieria (a sud di
Salonicco) e Imathia (a est della
stessa città).
Ritrovati in mare dodici cadaveri di migranti diretti in Europa
Tragedia nelle acque libiche
A Idomeni le proteste di migranti
e rifugiati sono all’ordine del giorno
dopo il raggiungimento dell’intesa
tra Unione europea e Ankara che
prevede il ricollocamento in Turchia
di profughi giunti irregolarmente nel
vecchio continente, mentre Bruxelles
si è impegnata ad accogliere nuovi
migranti regolarmente residenti in
territorio turco, secondo il rapporto
di uno a uno.
Stando al Governo di Atene, sono
poco meno di 50.000 i migranti e i
rifugiati attualmente in territorio
greco, la maggior parte dei quali —
quasi 14.000 — in vari centri nella regione della capitale. Sulle isole del
Dodecaneso ci sono attualmente
4.680 persone, oltre la metà delle
quali a Lesbo.
E intanto, la Bulgaria ha annunciato di essere pronta a erigere una
barriera ai confini con la Grecia in
caso di necessità per bloccare il flusso di migranti e rifugiati che decidessero di aprire una rotta alternativa a quella balcanica. Riferendo in
Parlamento, il premier Boyko
Borisov, si è detto ieri particolarmente preoccupato del fatto che a
suo dire il Governo di Atene non
abbia ancora preso misure adeguate
sulla gestione del flusso degli arrivi.
Il primo ministro ha ricordato che
nei giorni scorsi la Bulgaria ha fornito aiuti umanitari ai centri profughi nella ex Repubblica jugoslava di
Macedonia, come aveva precedentemente fatto per la Grecia. Le condizioni nei centri profughi in Macedonia sono migliori di quelli della Grecia, ha aggiunto, definendo invece
«spaventose» quelle nei centri greci.
E ieri nel frattempo, il presidente
del Consiglio italiano, Matteo Renzi, ha partecipato a una riunione
operativa a Lampedusa, città siciliana in prima linea nell’emergenza immigrazione. «Lampedusa non è solo
frontiera, non è periferia lontana dagli occhi, ma è il cuore spirituale
dell’Europa» ha spiegato Renzi, lanciando un monito a «non far finta
di niente di fronte alle grandi emergenze del nostro tempo». L’emergenza è alta: centinaia di migliaia di
persone — l’allarme è stato lanciato
due giorni fa dal ministro della Difesa francese — sono in attesa di partire dalle coste libiche. Renzi ha
quindi auspicato che l’Ue riesca a
trovare un accordo per varare al più
presto misure efficaci. «Guai a pensare che bastino risposte superficiali:
compito dell’Europa è tenere insieme la nostra identità» ha detto.
Proteste contro la riforma del lavoro
Il prodotto interno lordo cresce più delle attese
Guerriglia urbana
a Parigi
Accelera l’economia statunitense
spinta dai consumi
Manifestante durante le proteste nel diciannovesimo arrondissement (Afp)
PARIGI, 26. Sassaiole, fumogeni:
due commissariati del nord est di
Parigi sono stati bersaglio ieri di un
gruppo di studenti nel corso di
proteste legate alle manifestazioni
contro la riforma del lavoro. Nello
specifico, a suscitare la rabbia degli
studenti è stato un video pubblicato alcuni giorni fa su internet in cui
si vede un quindicenne che viene
picchiato da tre agenti a margine
delle recenti manifestazioni volte a
fermare il disegno di legge che vuole introdurre maggiore flessibilità
nel mercato del lavoro.
Nel diciannovesimo arrondissement i manifestanti si sono scagliati
contro i vetri blindati del commissariato, usando assi e tavole di legno. Nel frattempo, due supermercati Franprix venivano saccheggiati
da un centinaio di giovani che partecipavano alla protesta. Per placare
l’assalto, trenta agenti sono dovuti
uscire dalla stazione di polizia con
caschi e manganelli. Scene da guerriglia urbana diffuse dalle principali
televisioni nazionali e per le quali
la procura di Parigi ha aperto
un’indagine giudiziaria.
Il ministero degli Interni francese
ha duramente condannato le violenze commesse dagli studenti, così
come il comportamento degli agenti nel video diffuso in rete. Le immagini, infatti, «non corrispondono
all’idea che la maggioranza dei poliziotti di Francia, per non dire la
quasi totalità, hanno della loro missione e delle condizioni in cui la
devono esercitare» ha detto il ministro dell’Interno, Bernard Cazeneuve. «Se ci sono stati errori verranno
sanzionati» ha detto il prefetto di
Parigi, Michel Cadot.
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NEW YORK, 26. L’economia statunitense accelera nel quarto trimestre
crescendo dell’1,4 per cento. Lo afferma il Dipartimento del Commercio, rivedendo al rialzo la precedente stima dell’1 per cento, dato atteso
anche dagli analisti, che scommettevano dunque su una crescita inferiore. La revisione al rialzo della stima
sul prodotto interno lordo è legata
ai consumi, saliti del 2,4 per cento
rispetto al più 2 inizialmente previsto. Nel 2015 i consumi sono infatti
saliti del 3,1 per cento, l’aumento
maggiore dal 2005.
Tuttavia, nonostante l’accelerazione, la crescita dell’1,4 è inferiore rispetto alla media del 2,2 dei primi
tre trimestri del 2015. A pesare è il
calo dei profitti delle aziende, scesi
dell’8,1 per cento, il calo maggiore
dal 2011. Le esportazioni sono invece calate del 2 per cento, meno del
2,7 inizialmente previsto.
Sempre ieri è stato diffuso il dato
sulle piccole e medie imprese dei
servizi, che sale a 51 punti nel mese
di marzo. Lo rende noto Markit
Economics, esplicitando così — nonostante si tratti di un dato inferiore
alle attese — una fase espansiva
La Borsa di New York (Afp)
dell’economia che torna sopra i 50
punti dopo che la rilevazione precedente si era fermata a 49,7.
Commentando la revisione al rialzo del pil, la Casa Bianca sottolinea
che il dato mostra la «solida domanda interna», ma anche come la
«più debole crescita internazionale
abbia continuato a pesare sull’economia americana nel quarto trime-
Yuan svalutato
ai minimi sul dollaro
PECHINO, 26. Lo Yuan è sceso ieri
ai minimi sul dollaro da due mesi
e mezzo, dopo che la banca centrale cinese ha fissato la parità sul
biglietto verde a 6,5223, al livello
più basso delle ultime due settimane e in calo di 73 punti base secondo i calcoli elaborati dal China
Foreign Exchange Trading System.
La valuta cinese è destinata a
soffrire nei confronti del dollaro
nel caso in cui il biglietto verde si
apprezzi significativamente nei
prossimi mesi, secondo quanto dichiarato da Huang Yiping, adviser
della Peoples Bank of China, nel
corso al forum di Boao, nell’isola
tropicale cinese di Hainan. Tale
dichiarazione segue di pochi gior-
GIOVANNI MARIA VIAN
direttore responsabile
Giuseppe Fiorentino
vicedirettore
Piero Di Domenicantonio
Servizio vaticano: [email protected]
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caporedattore
Gaetano Vallini
segretario di redazione
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KABUL, 26. Non si allenta la violenza in Afghanistan nonostante i tentavi di dialogo per trovare una soluzione al decennale conflitto. Un generale dell’esercito afghano è stato
ucciso ieri sera dai talebani nella
provincia meridionale di Kandahar,
nell’azione di due attentatori suicidi
che ha provocato la morte anche di
una delle guardie del corpo.
Il portavoce del Governo provinciale, Samin Khpolwal, ha indicato
che la vittima, Khan Agha, era il vice comandante del 205º Corpo
dell’esercito nazionale, aggiungendo
che l’attacco è avvenuto nel distretto
di Dand quando l’ufficiale era rientrato nella sua Guest House. L’operazione è stata rivendicata dai talebani: sarebbe stata condotta da due
Segreteria di redazione
telefono 06 698 83461, 06 698 84442
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Tipografia Vaticana
Editrice L’Osservatore Romano
don Sergio Pellini S.D.B.
direttore generale
VIENNA, 26. Monito di Yukiya
Amano, direttore generale dell’Agenzia
internazionale
per
l’energia atomica (Aiea), contro il
«terrorismo nucleare», un fenomeno in espansione e di cui non tutti
gli Stati «riconoscono il pericolo». E invece si tratta di «un problema molto serio».
Riferendosi implicitamente agli
attentati di martedì scorso a Bruxelles — secondo alcune fonti, tra
gli obiettivi c’era anche la centrale
atomica di Liegi — Amano ha
messo in guardia sulla «espansione in atto del terrorismo» e sulla
stessa «possibilità del ricorso a
materiali nucleari» che, ha sottolineato, «non può escludersi». Una
nuova frontiera, insomma, rispetto
alla quale i Governi «debbono
coltivare un interesse di lungo periodo nel rafforzare la sicurezza»
in tale settore, ha avvertito il diplomatico giapponese. Nella situazione attuale «non è impossibile
procurarsi il necessario per confezionare ordigni nucleari seppure
primitivi», ben più potenti delle
cosiddette “bombe sporche”, cioè
munite di esplosivo convenzionale
in grado di disperdere sostanze radioattive.
D’altronde, ha proseguito Amano, per realizzare le “bombe sporche” occorre comunque una «tecnologia ormai antiquata» e i terroristi attualmente «dispongono dei
mezzi, delle cognizioni e delle informazioni» necessari. Si tratta di
«un’arma sufficiente a far piombare nel panico qualsiasi grande città del mondo».
Il direttore generale dell’Agenzia dell’Onu ha ricordato come
dalla metà degli anni Novanta siano stati accertati dall’Aiea quasi
2.800 casi di contrabbando, possesso non autorizzato o smarrimento di sostanze fissili. E spesso
gli episodi concernevano materiale
utilizzabile per la costruzione di
una “bomba sporca”. In base a
tutto ciò, uno strumento essenziale per arginare la minaccia terroristica sarebbe allora l’entrata in vigore dell’emendamento del 2005
alla Convenzione sulla protezione
fisica del materiale nucleare, unica
normativa che impone ai firmatari
di adottare provvedimenti in tal
senso, ma che tuttora non è in vigore.
stre». «È importante andare avanti
con politiche che aprano nuovi mercati alle nostre esportazioni — si legge in una nota — e promuovano una
forte domanda interna. C’è ancora
da fare e il presidente Obama è impegnato in politiche che rafforzano
la crescita di lungo termine, che sostengono l’innovazione e gli investimenti nelle infrastrutture».
Generale dell’esercito afghano
ucciso dai talebani
ni le rassicurazioni sulla tenuta
della valuta cinese da parte del
primo ministro cinese, Li Keqiang,
che giovedì aveva ancora una volta escluso la possibilità di una
svalutazione dello yuan per sostenere le esportazioni cinesi e pochi
giorni prima, a colloquio con il
direttore del Fondo Monetario Internazionale, Christine Lagarde, si
era detto contrario a una guerra
valutaria su scala globale.
A Boao Li Keqiang aveva detto
che la Cina adotterà le misure necessarie per evitare che la crescita
non raggiunga gli obiettivi prefissati, assicurando che continuerà
lungo la strada delle aperture del
proprio mercato interno e nello
snellimento della burocrazia.
Timori dell’Aiea
per la sicurezza
delle centrali
nucleari
miliziani. Il portale di notizie
Khaama Press ha segnalato che si
tratta del secondo generale afghano
ucciso in Afghanistan meridionale
negli ultimi due mesi. In febbraio
infatti, a seguito dell’esplosione di
un ordigno rudimentale, era morto
nella provincia di Helmand il generale Atamir Agah.
E un ordigno di forte potenza è
esploso ieri sera nel quartiere di
Macroyan di Kabul causando il ferimento di almeno una persona. La
carica esplosiva — stando a quanto
dice la stampa locale — era stata collocata su una bicicletta stazionata
vicino a un edificio dietro il parco
Fordawsi. Sembra che l’obiettivo
fosse un imprecisato deputato afghano che è però rimasto illeso.
Tariffe di abbonamento
Vaticano e Italia: semestrale € 99; annuale € 198
Europa: € 410; $ 605
Africa, Asia, America Latina: € 450; $ 665
America Nord, Oceania: € 500; $ 740
Abbonamenti e diffusione (dalle 8 alle 15.30):
telefono 06 698 99480, 06 698 99483
fax 06 69885164, 06 698 82818,
[email protected] [email protected]
Necrologie: telefono 06 698 83461, fax 06 698 83675
Iran e Pakistan
rafforzano
i legami
commerciali
ISLAMABAD, 26. Il Pakistan e
l’Iran rafforzeranno le relazioni
economiche e apriranno due punti
di passaggio supplementari nelle
loro frontiere comuni. Questo il
principale risultato della visita del
presidente iraniano, Hassan Rohani, ieri a Islamabad.
«Il nostro commercio e i nostri
legami economici hanno sofferto
in ragione delle sanzioni. Ci siamo messi d’accordo per rafforzare
i nostri rapporti bilaterali in diversi settori: commerciali, economici
ed energetici» ha detto il premier
pakistano, Nawaz Sharif, dopo un
colloquio con Rohani. Dal canto
suo, il presidente iraniano — che
oggi incontra l’omologo pakistano, Mamnoon Hussain — ha annunciato dei negoziati per giungere a un accordo di libero scambio
e di sviluppo del commercio marittimo tra i porti di Gwadar (Pakistan) e Chabahar (Iran). Altri
temi trattati, la sicurezza regionale
e la determinazione a combattere i
terroristi.
Concessionaria di pubblicità
Aziende promotrici della diffusione
Il Sole 24 Ore S.p.A.
System Comunicazione Pubblicitaria
Ivan Ranza, direttore generale
Sede legale
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Ospedale Pediatrico Bambino Gesù
Società Cattolica di Assicurazione
Credito Valtellinese
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domenica 27 marzo 2016
pagina 3
Il luogo dell’attentato
nei pressi di Baghdad (Ap)
Ucciso il numero due dell’organizzazione
L’Is perde terreno
in Siria
DAMASCO, 26. Perde terreno in Siria
il cosiddetto Stato islamico (Is). Un
duro colpo ai jihadisti è stato assestato ieri dalle forze della coalizione
internazionale a guida statunitense,
che hanno ucciso un importante leader, considerato il “numero due”
dell’organizzazione. Il capo del
Pentagono, Ash Carter, ha infatti
confermato l’uccisione, in un’incursione aerea, di colui che era conosciuto come il “ministro delle Finanze” dell’Is. Si tratta di Abdel
Rahmane Al Qadouli, «un terrorista
noto anche per i suoi legami con Al
Qaeda e uno dei tre obiettivi di
maggiore valore». Carter ha inoltre
sottolineato che gli Stati Uniti sono
«impegnati più che mai al fianco
dell’Europa. I nostri nemici sono gli
stessi». L’uccisione di Al Qadouli
«ostacolerà la capacità operativa
delle forze dell’Is».
Su Al Qaduli, di origine irachena,
il dipartimento di Stato americano
aveva messo una taglia di sette milioni di dollari per informazioni che
avessero portato alla sua cattura. Il
militante aveva assunto maggior potere — riferiscono fonti di stampa —
dopo il ferimento del leader dell’Is,
Abu Bakr Al Baghdadi (mai confermato). Carter non ha chiarito se
l’operazione che ha portato alla
morte di Al Qaduli sia stata sferrata
in Iraq o Siria, così come non ha
confermato specifici legami dell’uomo con i fatti di Bruxelles. Il capo
del Pentagono ha tuttavia sottolineato che «non ci sono dubbi sul
Aumentano
le difficoltà
per il Governo
di unità libico
TRIPOLI, 26. Si fa sempre più in salita la strada per il varo di un Governo di unità nazionale in Libia,
nonostante gli sforzi della comunità
internazionale. E il rischio — in questa situazione di caos — di un’ulteriore avanzata del cosiddetto Stato
islamico (Is).
Le autorità installate a Tripoli —
il Governo non riconosciuto dalla
comunità internazionale — hanno ieri decretato «lo stato di emergenza
massimo» nella capitale libica. La
misura arriva dopo l’annuncio del
Governo di unità nazionale di installarsi prossimamente proprio a
Tripoli. Tale Governo, promosso
dalle Nazioni Unite e presieduto
dal premier Fayez Al Sarraj, martedì
scorso ha infatti annunciato l’intenzione di trasferirsi a Tripoli «nei
prossimi giorni».
Anche Abdel Majid, consigliere
del presidente del Parlamento libico
di Tobruk, Aguila Saleh — anch’esso
riconosciuto dalla comunità internazionale — ritiene «sia molto difficile
che Fayez Al Sarraj riesca a entrare
a Tripoli per insediarvi il suo Governo» e che «resterà in esilio a Tunisi in quanto al momento non ha
alcuna autorità nel Paese. Nessuno
— ha aggiunto Majid — esegue i
suoi ordini e non ha la possibilità di
insediarsi. Al massimo potrebbe insediarsi all’interno della sede della
missione dell’Onu, nella zona di Al
Janzur e rimanere lì senza fare nulla». Per il consigliere «sono pochi i
libici che sostengono quel Governo
e al momento la decisione della comunità internazionale di riconoscerlo non incide sul percorso che sta
seguendo il Parlamento di Tobruk».
Intanto, la Russia sottolinea che
il fattore tempo nel dossier libico è
molto importante e auspica che nel
Paese non si ripeta la storia della Siria, dove si è stati a discutere quattro, cinque anni, dando così modo
all’Is di occupare territori, così come in Iraq. È quanto detto dal capo
della diplomazia del Cremlino, Serghiei Lavrov, rispondendo a una domanda sul possibile ruolo di Mosca
nella soluzione della crisi libica, al
termine del suo colloquio ieri con il
ministro degli Esteri italiano, Paolo
Gentiloni.
controllo sul castello di Palmira, infliggendo
pesanti
perdite
ai
jihadisti» ha riferito l’agenzia Sana.
La cittadella domina l’area archeologica che è considerata dall’Unesco
patrimonio dell’Umanità, e dove l’Is
aveva issato la propria bandiera nel
maggio del 2015. Questa mattina
l’agenzia di stampa russa Tass,
riporta, stando a quanto riferito da
una fonte siriana, che le truppe di
Damasco hanno preso il controllo
anche di una strada che porta da
Palmira a Deir Ezzor e si troverebbero «a 500 metri dall’aeroporto» della città. Sarebbe — se
confermato — un nuovo importante
passo in avanti a favore dei governativi.
Sul piano diplomatico, Mosca ha
reso noto che l’avvio del prossimo
round dei colloqui inter-siriani a Ginevra è in programma per l’11 aprile. Il Cremlino auspica che le parti
arrivino al tavolo negoziale con una
«reazione concreta» alla bozza d’intesa proposta dall’inviato speciale
Onu, Staffan de Mistura.
fatto che i personaggi nel mirino
delle operazioni facciano parte di
quell’apparato in Siria e in Iraq che
lavora per reclutare e addestrare».
La sua morte, ha aggiunto Carter, è
un duro colpo anche per le finanze
dell’organizzazione e soprattutto per
«la loro capacità di pagare e ingaggiare reclute».
Il Pentagono ha inoltre confermato la morte anche dell’uomo considerato il “ministro della guerra”
dell’Is, Tarkhan Batirashvili, meglio
conosciuto come Omar Al Shishani.
Secondo l’Osservatorio siriano per i
diritti umani (organizzazione voce
dell’opposizione, con sede a Londra), Al Shishani era rimasto gravemente ferito in un raid aereo a inizio marzo; alcune fonti statunitensi
ritenevano che fosse morto.
Sul piano militare, non si fermano i combattimenti tra i soldati
dell’esercito siriano e i miliziani
dell’Is a Palmira. Ieri i governativi
fedeli al presidente Assad hanno ripreso la cittadella e lo storico castello. «Le unità dell’esercito e della
milizia popolare hanno stabilito il
Oltre quaranta morti per un attentato suicida durante una partita di calcio
Terrore jihadista in Iraq
BAGHDAD, 26. Il terrore jihadista torna a segnare l’Iraq.
È di 41 morti e decine di feriti il bilancio dell’attentato
suicida, rivendicato dal cosiddetto Stato islamico (Is),
avvenuto ieri durante una partita di calcio a Iskanderiyah, a cinquanta chilometri da Baghdad. Lo riferiscono fonti della sicurezza e mediche, precisando che i feriti sono almeno un centinaio. Tra i morti c’è anche il
sindaco della cittadina. Gli Stati Uniti hanno condannato l’attacco «che ha ucciso e ferito decine di iracheni
riuniti per assistere a una partita di calcio» si legge in
una nota del dipartimento di Stato. Washington confer-
ma «l’impegno e il sostegno degli Stati Uniti al popolo
iracheno e per l’unità dell’Iraq». Il Pentagono ha inoltre annunciato che proporrà «nelle prossime settimane
di rafforzare il sostegno militare alle forze irachene» ha
annunciato il generale Joe Dunford, capo di Stato maggiore interforze. Il sostegno militare si concentrerà — dicono gli analisti — nell’area di Mosul dove da settimane
l’esercito di Baghdad ha lanciato un’offensiva per riconquistare una delle principali roccaforti dell’Is. Finora le
truppe hanno ripreso il controllo di quattro villaggi che
si trovano a sud del capoluogo della regione di Ninive.
S’inasprisce
lo scontro politico
in Niger
Nel mirino le forze del presidente yemenita Hadi
Tre autobombe esplodono ad Aden
SANA’A, 26. Non si ferma la violenza nello Yemen. I terroristi continuano a mietere vittime, anche se
pochi giorni fa l’inviato speciale
dell’Onu, Ismail Ould Sheikh
Ahmed, aveva annunciato che le
parti in conflitto — il Governo del
presidente Abd Rabbo Mansour
Hadi e i ribelli huthi — hanno raggiunto un accordo per una tregua
dal prossimo 10 aprile. È di almeno
25 morti il bilancio di un triplice attentato suicida sferrato ieri, con altrettante autobomba, contro posti
di blocco ad Aden, nel sud dello
Yemen. A riferirlo è l’emittente Al
Arabiya, citando fonti della sicurezza. Nel mirino dei terroristi, le forze
lealiste del Governo Hadi. La strage è stata rivendicata dal cosiddetto
Stato islamico (Is). Secondo la ricostruzione della polizia locale, due
autobomba sono esplose simultaneamente contro altrettanti checkpoint nel distretto di Shaab, alla
periferia occidentale di Aden. Una
terza bomba, collocata all’interno di
un’ambulanza, è esplosa invece a
un posto di blocco vicino a Mansura, nel centro della città.
Le devastazioni provocate da un’autobomba ad Aden (Afp)
Tunisia e Algeria si impegnano per una maggiore cooperazione sulla sicurezza
Blitz contro i fondamentalisti a Ben Guerdane
TUNISI, 26. L’operazione antiterrorismo a Ben Guerdane, ultima città
tunisina prima del confine libico,
ha portato finora all’uccisione di 55
miliziani del cosiddetto Stato islamico (Is) e all’arresto di 52 jihadisti
che per i servizi segreti rappresentano una miniera di informazioni. Lo
ha annunciato oggi il premier tunisino, Habib Essid, precisando che
l’operazione è ancora in corso.
Dagli interrogatori degli arrestati
starebbero emergendo elementi utili
alle indagini e alla scoperta di altri
depositi di armi, ha aggiunto il premier. Il 7 marzo scorso un gruppo
di miliziani dell’Is avevano tentato
di impadronirsi di Ben Guerdane,
ma il tentativo è fallito per l’intervento in forze dell’esercito.
Intanto Algeria e Tunisia hanno
iniziato a valutare come avviare un
ampio coordinamento nel settore
della sicurezza. Lo ha detto ieri il
ministro dell’Interno algerino, Nouredine Bedoui, al termine del suo
incontro con l’omologo tunisino,
Hedi Majdoub, che ha iniziato la
sua visita nel Paese.
«Questo incontro mira a consacrare la volontà politica dei due
Paesi di applicare le istruzioni del
presidente algerino, Abdelaziz Bouteflika, il quale ha sottolineato la
necessità di rafforzare le relazioni
tra la Tunisia e l’Algeria per fare
fronte alla situazione di instabilità
nella regione», ha detto il ministro
algerino. «La situazione attuale esige che i due Paesi rilancino un
coordinamento nel campo della sicurezza al fine di preservare la loro
stabilità», ha aggiunto il ministro
Nouredine Bedoui.
Secondo quanto dichiarato da
Majdoub in una recente intervista
all’emittente francese France 24, il
Governo di Tunisi lavora da lungo
tempo con le autorità libiche e algerine al fine di proteggere i confini nazionali. Tuttavia, in particolare
con la Libia, la cooperazione nel
settore della sicurezza è diventata
difficile a causa della situazione di
instabilità nel Paese dove si fa sempre più radicata la presenza dell’Is.
«Le informazioni dei servizi di
intelligence in merito all’attacco di
Ben Guerdane erano incomplete»,
ha detto il ministro, secondo cui
l’intelligence non è riuscita a ottenere informazioni circa il luogo e le
tempistiche dell’azione. «Stiamo lavorando con l’Algeria per proteggere le nostre frontiere», ha aggiunto
Majdoub, ma «è fondamentale contare prima su noi stessi e su quello
che riusciamo a fare con i nostri
mezzi». Il ministro ha inoltre negato la presenza di militari stranieri
sul suolo tunisino e qualsiasi cooperazione con la Nato.
Aden venne dichiarata capitale
provvisoria dello Yemen dal presidente Hadi dopo la conquista di
Sana’a da parte dei miliziani huthi
il 21 settembre del 2014. Da allora è
esploso un sanguinoso conflitto che
si è allargato quando a marzo
dell’anno scorso è scesa in campo
una coalizione guidata dall’Arabia
Saudita a sostegno di Hadi.
Secondo fonti delle Nazioni Unite non meno di 6.300 persone sono
morte nello Yemen in una guerra
che prosegue lontano dai riflettori
dei media internazionali e che sta
avendo durissime conseguenze per
la popolazione civile.
Infatti, la situazione umanitaria
peggiora di giorno in giorno e ha
raggiunto livelli inaccettabili: i civili
sono bloccati dietro le linee del
fronte, senza cure mediche, beni alimentari, carburante e acqua. C’è un
urgente bisogno di aumentare l’accesso alle cure mediche e ai beni di
prima necessità per la popolazione
civile. Ieri per la prima volta un
convoglio di tredici camion dell’alto
commissariato delle Nazioni Unite
per i Rifugiati (Unhcr) è riuscito a
raggiungere la città di Taiz da nove
mesi assediata dai ribelli huthi. Ma
è una goccia nel mare della sofferenza in un Paese, tra i più poveri
già prima dell’inizio della guerra,
dove le persone non hanno né cibo
né acqua e dove non c’è nessun posto dove andare ed essere sicuri.
NIAMEY, 26. È destinato a inasprirsi lo scontro politico nel Niger dopo l'elezione, ieri, di Ousséini Tinni a presidente del Parlamento. Ousséini Tinni è infatti
membro del Partito nigerino per
la democrazia e il socialismo, la
formazione politica del Capo dello Stato in carica Issoufou Mahamadou, la cui vittoria nelle elezioni di due giorni fa è stata fortemente contestata dall'opposizione.
Quest’ultima ritiene che il voto si
sia svolto in maniera irregolare e
ha chiesto ai cittadini di ribellarsi.
Tre deputati dell’opposizione sono
attualmente agli arresti, accusati
d’essere implicati nel tentativo di
un colpo di Stato lo scorso dicembre. Un altro deputato è in carcere per aver incitato alla disobbedienza. Issoufou Mahamadou può
contare, stando ai dati ufficiali
delle elezioni, su un’ampia maggioranza, avendo ottenuto 118 dei
171 seggi parlamentari disponibili.
Ieri il presidente ha proposto
all’opposizione di partecipare alla
formazione di un Governo di unità nazionale. L’opposizione, tuttavia, ancora non si è espressa a riguardo. Quello che sta accadendo
in Niger è seguito con grande interesse dalla comunità internazionale, in particolare dalla Francia e
dagli Stati Uniti, perché il Sahel è
diventato uno dei teatri della
guerra al terrorismo.
Tensione a Brazzaville
tra Esecutivo e opposizione
BRAZZAVILLE, 26. Violenza nel Congo Brazzaville. La polizia ha circondato ieri la sede dell’Unione panafricana per la democrazia e il
progresso sociale (Upads) — primo
partito di opposizione presente in
Parlamento — nella capitale Brazzaville. Questo per impedire lo svolgimento della conferenza stampa
annunciata da cinque candidati di
opposizione per contestare la rielezione del presidente uscente, Denis
Sassou Nguesso. Visto lo schieramento di un centinaio di poliziotti,
gli oppositori hanno ritenuto opportuno non proseguire. Alcuni attivisti hanno riferito di arresti nelle
strade che circondano l’edificio, ma
senza specificarne il numero. Poco
dopo l’annuncio dei risultati delle
recenti elezioni, il generale JeanMarie Michel Mokoko, arrivato terzo con circa il 14 per centi dei voti,
avrebbe lanciato un appello «alla
disobbedienza civile». Secondo
fonti del Governo di Brazzaville,
Mokoko avrebbe messo a punto
piani per un'insurrezione armata.
Tuttavia si tratta di notizie prive di
riscontri. A tal proposito, il colonello Tchoumou, portavoce della polizia, ha dichiarato all’agenzia Afp,
che «trovandoci alla fine del processo elettorale» e di fronte ad un
candidato che richiede la disobbedienza civile «è un diritto della polizia adottare misure precauzionali». Nel frattempo — dice la stampa
locale — il candidato arrivato secondo, Guy-Brice Parfait Kolelas, ha
detto di voler contestare i risultati
attraverso «le vie legali a sua disposizione». Nguesso è al potere da oltre trentadue anni ed è stato rieletto
al primo turno con oltre il 60 per
cento dei voti, secondo i risultati
ufficiali.
L’OSSERVATORE ROMANO
pagina 4
domenica 27 marzo 2016
Testa di una statua in legno
di san Francesco di Paola (XVII secolo,
Museo di arte sacra, San Paolo, Brasile)
La Pira, i poveri di San Procolo e la Pasqua
Questa barca
che è la terra
assano gli anni ma le parole di Giorgio La Pira
non perdono la loro perenne giovinezza; soprattutto quelle che riguardano il mistero pasquale. Ne sono testimonianza le parole pronunciate
tra i poveri di San Procolo e alla
Badia di Firenze prima e dopo la
seconda guerra mondiale, raccolte
con cura da Nino Giordano nel libro I santi in mezzo ai poveri (Firenze, Edizioni Polistampa, 2015, pagine 111, euro 12). «La fede è una cosa grossa» dice nel febbraio 1959; il
P
cristiano non ha solo la possibilità
di accostarsi ai sacramenti, ma anche di parlarne con gli altri. La pace, il bene, il male dipendono da
ciascuno di noi, e nello stesso tempo sono una cosa collettiva. «La fede — ripete — è come una lampada
che viene consegnata perché voi
possiate trasmetterla e farla risplendere». Bisogna che la fede «si
espanda maggiormente e ovunque»:
nell’architettura, nella pittura, nella
scultura. È solo così che può rinascere il fervore nel mondo.
Un mese dopo, nel marzo 1959,
La Pira si sofferma sul significato
della Resurrezione citando la stessa
immagine, «una lampada che ci
hanno dato in consegna per farla
stare sempre accesa». E racconta un
aneddoto personale. «Ti posso dare
fino a trentasette miliardi — aveva
detto a un amico — ma la questione
non è lì, perché te li posso dare anche subito, è questione di carta. È
che a te manca la grazia, non trentasette miliardi, la pace della grazia.
Vai da un prete e ti sentirai in pace». L’io non coincide con il
ruolo ricoperto nella società: carcerati o appena
usciti di prigione, deputati o non deputati,
il mistero del cuore
non cambia. «E se il
cuore lo hai in pace,
va tutto bene, e la
questione è tutta lì.
Ovvero dare la pace senza pagare
niente». Una pace
capace di propagarsi in tutto il
mondo. «Un bambino che nasce ha un
mistero, guarda che cosa
semplice». Il mondo è
una continua sorgente di
meraviglia, se si lascia spaziare lo sguardo oltre il proprio naso, e ci si affaccia su
altre nazioni e altri continenti, come l’Africa, patria dei
«popoli
di
domani».
Nell’aprile del 1963, parlando della resurrezione del Signore, La Pira cita la metafora del seme che il contadino mette sotto terra: il seme
muore, ma da questa morte scaturisce una grande fioritura. «Questa
barca che è la terra — affermava — è
una flotta unica con tutti i popoli.
Dove va questa flotta? Va verso la
resurrezione generale. La vera carità
è rivelare agli altri il mistero di Dio.
E poi conclude, con la consueta allegria, teologicamente fondata: «Se
io muoio, non muoio mica, perché
trovo la vera vita e un giorno risusciterò con il mio corpo».
Il sesto centenario della nascita di san Francesco di Paola
Eremita e diplomatico
di RO CCO BENVENUTO
Il 27 marzo ricorre il VI centenario
della nascita di san Francesco di
Paola (1416-1507). Come per altri
santi dell’epoca basso medievale,
la documentazione che ci è pervenuta attesta solo l’anno di nascita
(1416), mentre la più antica menzione del giorno e mese (27 marzo) è connessa alla pubblicazione
nel 1618 a Barcellona di una rac-
Ricevuto in udienza da Sisto IV
per avere istruzioni sulla missione
alla corte francese di Luigi XI
approfittò per chiedere
l’approvazione della sua regola
colta agiografica curata dal terziario Pietro Giacomo Tristany.
D’altro canto la scelta eremitica,
alla quale Francesco resterà sempre fedele, anche quando andrà a
vivere a Tours, presso la corte di
Francia, e quando la sua congregazione si evolverà nel nuovo Ordine dei Minimi, comporta diversi
coni d’ombra che sarà difficile illuminare, nonostante la recente
storiografia abbia fatto passi da
gigante per recuperare, attraverso
lo scavo archivistico, il vero Francesco rispetto a quello dell’agiografia barocca che, esaltando la
sua attività taumaturgica, aveva
fatto cadere nell’oblio il contributo offerto alla riforma della Chiesa
e alla società del suo tempo.
La Legenda maior, così chiamata rispetto a quella minor, rinvenuta nel 2014 nella biblioteca
dell’Università di Barcellona, è
quella che offre maggiori informazioni sulla fase iniziale, in
quanto raccoglie ricordi del fondatore ormai anziano. Riferisce
sul famulato trascorso all’età di
quindici anni presso i
francescani di San Marco Argentano, sul successivo
pellegrinaggio
ad Assisi per lucrare
l’indulgenza della Porziuncola e sulla sosta a
Roma dove il giovane
Paolano rimase così colpito al passaggio di un
corteo cardinalizio, da
avvicinarsi alla carrozza
ed esternare il proprio
disagio: «Gli Apostoli di Gesù
Cristo non tenevano mica questo
seguito». La risposta del porporato è preziosa per conoscere la
situazione che si viveva nel Centro della Cristianità: «Figlio non
ti scandalizzare, perché, se noi
agissimo diversamente, lo stato
apostolico sarebbe certamente disprezzato e vilipeso dai secolari».
Al termine di un lungo pellegrinaggio, durante il quale aveva
visitato diversi eremitaggi e santuari, verso il 1435 decide di non
entrare in nessuna organizzazione
religiosa e di vivere da semplice
Frate e artista informale
Le trame di Sidival
Lavora a un’opera dedicata a san Francesco
di Paola, ispirata al mantello con cui attraversò lo stretto di Messina, con la stessa serietà e pazienza con cui libera da orrende
vernici smaltate i vecchi portoni e le antiche
finiture in legno del suo convento. «Negli
Le opere vengono realizzate
con materiali poveri come carta, legno
vecchie tele e antiche stoffe segnate dal tempo
Materia cristallizzata e dimenticata
che torna a vivere e a parlare
anni Settanta andava di moda ricoprire tutto con lo smalto; era visto come un modo
veloce ed economico per far sembrare tutto
nuovo» spiega Sidival Fila con un sorriso,
nel suo studio, in cima alla torre del convento francescano di San Bonaventura al
Palatino, che si affaccia sui Fori imperiali.
Non è un ospite, è casa sua. Arrivato in Italia nel 1985 — è nato 54 anni fa in Brasile,
nello Stato del Paraná — per dedicarsi allo
studio della pittura e della scultura, scopre
la vocazione religiosa e rinuncia all’attività
artistica per diciotto anni. Viene ordinato
sacerdote a Roma, dove esercita il suo ministero al Policlinico Agostino Gemelli, al
carcere di Rebibbia, nel convento di Vitorchiano.
Poi l’antica passione rinasce; gradualmente, attraverso piccoli lavori di restauro,
si riavvicina all’arte. Dal piccolo convento
di San Bonaventura il frate brasiliano dà
origine a un universo creativo originalissimo. Oggi le sue opere fanno parte di importanti collezioni private in Francia, nel
Principato di Monaco, in Svizzera, nelle
Collezioni d’Arte Contemporanea dei Musei Vaticani. Vengono realizzate con materiali poveri oppure obsoleti: carta, legno,
vecchie tele e stoffe.
«Non è un riciclo — ci tiene a precisare
Fila — è un recupero della stoffa antica che
ha subito una cristallizzazione e ora torna a
vivere, ad avere un significato. Fra il momento della creazione e la nuova realtà c’è
un collegamento con lo spazio lontano. Il
mio intento è quello di dar nuova vita alle
trame antiche. Di farle rivivere attraverso
l’arte». Quello che non è vivo nel presente,
non esiste, non è materialmente sperimentabile, ripete fra’ Sidival; le tele, invece, parlano silenziosamente di «ondulata flessione,
morbida tensione, movimento spezzato»,
come scrive nel sito dove presenta il suo
lavoro.
A chi gli chiede se è difficile conciliare
vocazione religiosa e arte, risponde che si
tratta di un falso problema. «Sono frate e
faccio l’artista. Essere frate riguarda il mio
modo di rapportarmi alla realtà, la mia visione del mondo. Fare l’artista è una manifestazione, non la mia essenza. Sono un frate che fa l’artista». E per essere certo che
l’interlocutore abbia capito davvero cosa intende dire ripete: «Sono. Fare. Sono due
verbi diversi».
Un’altra cosa che gli preme sottolineare è
il valore del tempo, occasione concreta per
sperimentare (e condividere) la Bellezza
con la B maiuscola: «Venite prima del tramonto — ripete alle tante persone che lo
vengono a trovare nel suo convento in cima
al Palatino — cercate di non perdervi la luce». (silvia guidi)
eremita a Paola. La sua esperienza evangelica, di cui povertà e
penitenza costituiscono i tratti salienti, avrebbe continuato a svolgersi nel silenzio di un’incantevole valle, a poca distanza da un
antico ponte medievale, se la notizia sui prodigi che avvengono al
suo eremo e sui gruppi di fedeli
che vi affluiscono, non fosse
giunta a Roma che, agli inizi del
1467, vi invia un cubiculario,
monsignor Baldassarre de Gutrossis, originario della diocesi di
Savona, al fine di acquisire direttamente informazioni su quanto
sta avvenendo nel piccolo centro
della costiera tirrenica. La testimonianza di Francesco sconvolgerà la vita del messo pontificio
che lascerà la Curia per ritirarsi a
Paola e dare un’organizzazione
canonica all’attività pastorale che
da alcuni anni l’eremita, coadiuvato da alcuni coetanei, sta portando avanti.
Nell’arco di pochi anni, tra il
1470 e il 1474, arrivano dapprima
il riconoscimento diocesano e poi
quello pontificio. Il romitorio di
Paola, nel frattempo, è divenuto
una meta molto frequentata dai
pellegrini tanto che, dopo l’Anno
Santo del 1475, annualmente vi si
possono recare per ottenere l’indulgenza plenaria nel giorno
dell’Assunta. Ormai, per l’anziano eremita, si profilava una vecchiaia protesa a diffondere e radicare la sua Congregazione oltre i
confini della diocesi di Cosenza,
ma tra l’estate del 1482 e l’inverno del 1483, si mettono in movi-
mento le cancellerie di Francia,
Napoli e Roma per convincerlo a
recarsi al capezzale di Luigi XI,
da tempo gravemente ammalato.
La missione dell’eremita, originariamente di carattere religioso, col
passare delle settimane si arricchisce di motivazioni politiche, trasformando Francesco nell’ago
della bilancia per il ristabilimento
dei rapporti tra le corti di Ferdinando d’Aragona e Sisto IV da
una parte e del monarca francese
dall’altra.
Finora si sapeva che, nel marzo
del 1483, Francesco fu ricevuto in
udienza dal Papa e istruito sulla
sua missione spirituale e diplomatica. Nel contempo, Francesco ne
approfittò per avanzare la richiesta al Pontefice per l’approvazione della sua regola. Dalla Legenda
minor, che offre maggiori informazioni rispetto al resoconto assai stringato del cronista aulico
Filippo De Commynes, sappiamo
che inizialmente la sua proposta
non fu accolta in quanto si trattava di andare contro il dettato del
Lateranense IV. L’eremita, però,
«incomenzò ad testar ex declarar’
alcuni passi dela sacra scriptura
con predicar et persuaderli».
Quel sermone, «bello et efficace
et pieno di sapientia e di doctrina», fatto peraltro da «persona
illitterata et idiota», impressionò
positivamente Papa della Rovere
e avviò il faticoso iter che culminò nell’approvazione di una regola (1493), quella dei Minimi,
senza venir meno al dettato conciliare.
L’OSSERVATORE ROMANO
domenica 27 marzo 2016
L’omelia della veglia e il messaggio alla città e al mondo di Paolo
pagina 5
VI
per la prima Pasqua dopo il concilio
Tra la pace
e la guerra
Miseria
e misericordia
una vigilia quella che celebriamo; essa tocca pure la solennità di cui è degna prefazione.
Le grandi cose non avvengono
mai all’improvviso nella nostra
storia umana. Non siamo mai così bravi
da comprendere tutto per via di intuito e
senza la fatica di qualche predisposizione
voluta. La quaresima, oggi terminata, è
appunto il ciclo preparatorio all’epilogo
di quest’ora notturna, ricca d’una forza e
intensità particolari.
La vigilia, e cioè l’attenzione ascetica,
l’esercizio della nostra volontà, l’impegno
È
Nell’incontro tra l’infinità che salva
e la nostra povertà
che ha bisogno di essere salvata
sta la Pasqua
la risurrezione, la nostra gioia
di tutte le nostre facoltà: memoria, sentimenti, propositi, rivolge ogni elemento
verso il punto più alto del mistero pasquale. Questo aspetto ascetico diviene
evidente per il fatto che il rito dovrebbe
essere celebrato nel tempo destinato al riposo, al sonno, durante la notte. Perciò è
molto lungo. Deve occupare tutte le ore
che vanno dal tramonto all’alba, ed è
frammisto di letture, di canti e di preghiere, proprio per alternare, con la diversità
degli atti e riferimenti, la nostra attenzione e tenerla vigile, desta e interessata. Lo
sforzo per vincere il sonno assume in questa notte uno spiccato aspetto penitenziale, e cioè di grande, buona volontà, nel
desiderio di andare al mistero pasquale
preparati con qualche sacrificio e rinunzia, con un raffronto fra ciò che ci è abituale e caro e quel ch’è insolito e ancor
più soave: l’incontro con Cristo risorto.
Alla preparazione ascetica si unisce
quella della mente, interessata alle lezioni,
ai grandi quadri biblici che sono stati posti davanti a noi con la lettura delle «profezie». Cosa vuol dire questo quadro,
questa sintesi della storia della salvezza,
come oggi si dice, cioè nel procedimento
seguito da Dio nel concedersi a noi, in
una rivelazione graduale che ha avuto i
momenti, i periodi, le stagioni, gli istanti
di luce e anche le pause, ma sempre con
una coerenza, una progressione che dalla
comparsa dell’uomo sulla terra, l’antico
Adamo, giunge fino all’avvento di Gesù
Cristo, il nuovo Adamo, sintesi della lunga escursione divinamente predisposta per
segnare la storia della umanità?
È il fulcro della meditazione proposta
durante la santa notte, la quale ha il suo
riflesso precipuo anche su come l’uomo,
con tutte le sue vicende e alternative, con
tutte le sue sconfitte e le vittorie; con i
suoi momenti di pienezza e altri di depressione; di fedeltà e di infedeltà, abbia
partecipato al dialogo proposto dal Signore. È la storia spirituale del mondo,
che ha poi il suo riscontro, si può dire
soggettivamente, nella piccola, ma per noi
unica, interessante, storia della nostra anima. Anche ciascuno di noi ha ricevuto
graduali rivelazioni.
Il Signore ha usato una pedagogia progressiva per noi e ci ha amati, ci ha istruiti; e finalmente ecco la Pasqua in cui ancora egli si concede, ci viene incontro, e ci
vuole idonei a ricordare degnamente le
preparazioni celesti e a esaltare i grandi
misteri vitali. Possiamo guardare in che
cosa si riassuma tale celebrazione nel suo
significato finale. Abbiamo poco fa acceso
il cero pasquale, abbiamo benedetto l’acqua del battesimo, e rinnovate le promesse battesimali: infine prorompe l’alleluia...
Vediamo il contrasto notturno fra le tenebre esteriori e la luce, fra la morte e la vita, fra il peccato e la grazia, fra la beatitudine di chi è in contatto con la vita stessa,
Dio, e l’oscurità di chi non lo è. Ora questo dualismo, in una parola, è il grande
tema della vigilia pasquale.
Chi ha seguito il canto dell’Exultet, che
è forse il più lirico, il più bello dei canti
della liturgia cristiana, avrà sentito echeggiare le parole e gli insegnamenti della
primissima teologia, quella di san Paolo,
che ha trovato nelle formule di sant’Agostino e di sant’Ambrogio le sue espressioni più alte e più paradossali: O felix culpa!
Era necessario che l’uomo cadesse per
avere un tanto redentore! Non sarebbe
servito a nulla avere la vita naturale se
non ci fosse stata poi largita la vita soprannaturale. Il dualismo, dunque, fra tenebre e luce, tra la vita e la morte, tra la
storia di Cristo che soffre e dà la vita per
F
Pericle Fazzini, «Resurrezione» (opera commissionata
da Paolo VI per l’aula Nervi in Vaticano)
noi e quindi la riprende per aprirci il
cammino verso l’eternità. Tutto questo deve offrire alle nostre anime argomento di
riflessione e davvero colmare i nostri spiriti di una moltitudine di pensieri, che riprendono il loro ordine risalendo precisamente al dualismo del bene e del male,
della grazia e del peccato, della vita e della morte.
Ed ecco la conclusione da queste premesse: noi riconosciamo con letizia e gratitudine di essere stati salvati. E cioè: tutta la nostra storia, la nostra salvezza è
guidata da un prodigio unico: la misericordia di Dio, la quale gratuitamente ci
redime per effondere in noi la rivelazione
suprema di ciò che egli è: bontà infinita.
Con indicibile amore ha voluto salvare
l’umanità concedendosi senza alcun limite, anche dopo che l’uomo avrebbe meritato ben altro; e cioè la condanna, l’ira e
la morte perpetua.
Il nostro inno alla bontà divina non toglie, anzi mette in rilievo, quel che noi
dobbiamo compiere per meritare la grazia
del Signore. Abbiamo poco fa rinnovato
le promesse battesimali, cioè abbiamo
proclamato di voler porre a disposizione
di Dio la nostra persona, perché Egli agisca in noi, compia in noi la salvezza. Ed
anche qui sant’Agostino, pare a noi, ha la
parola ardita, sintetica e sublime che riassume tutto l’eccelso poema, benché spesso è in noi un dramma continuo. Enuncia
i due poli, due parole immense: una riferita a Dio e si chiama misericordia; l’altra
riferita all’uomo e si chiama miseria.
Nell’incontro di queste due entità, e cioè
della infinità di Dio che salva, e della nostra povertà che ha bisogno di essere salvata, sta la Pasqua, la risurrezione, la nostra gioia; e da ciò deriva il nostro impegno. Sarà quello che porteremo nel cuore
appunto come ricordo di questa santa celebrazione.
In un libro annotazioni e meditazioni spirituali di Papa Montini
Una chiave di lettura
luglio 1963. Alla vertiginosa percezione della distanza fra la creatura
e il Creatore, tra il nulla dell’uomo
e l’infinito di Dio, colmata dal
mistero della misericordia, è dedicato il libro di
monsignor Leonardo Sapienza, reggente della Prefettura
della
Casa
pontificia Paolo VI e
le tre m: miseria, misericordia,
Magnificat (Roma, Edizioni Viverein, 2016,
pagine 100, euro 7).
Chi fu realmente
Paolo VI? Le supposizioni e le interpretazioni — scrive
Sapienza al termine
del volume — furono numerose e
contrapposte quando era in vita e subito dopo la morte.
Oggi si sono un
poco semplificate.
Ma la domanda resta. Carlo Bo, in un
articolo pubblicato
Un passo dei «Soliloquia» di Agostino in una nota di Paolo VI
nei giorni tra la
«Vertigini. Maria e il Magnificat
insegnano qualcosa. Timore. Amore. Umiltà e fiducia, al cardine di
incommensurabili destini» scrive
Paolo VI in un’annotazione del 6
ratelli! Fratelli vicini e siti di perdono, di fratellanza,
lontani! Fratelli a Noi d’unione e di pace sgorgarono dapcongiunti nella fede e pertutto dai cuori umani, tragicanella carità! e Fratelli cri- mente ammaestrati circa i frutti
stiani tuttora ancora da amarissimi degli egoismi collettivi,
noi separati! e voi tutti uomini fra- di cui è stata intessuta la nostra stotelli per l’umanità che tutti ci asso- ria. Con tristezza immensa ci è obcia nella figliolanza di Dio, e nella bligo notare che oggi tali propositi
comune sorte naturale della vita e si indeboliscono qua e là, e di nuovo minacciano di convertirsi in
della morte!
Ascoltate il Nostro messaggio ideologie totalitarie, in razzismi
pasquale: Cristo è risorto! Resurre- chiusi, in nazionalismi ambiziosi, in
xit Christus! Christòs anésti! Le lotte sociali sistematiche, in giochi
Christ est ressuscité!
Christ has risen again!
Christus ist auferstanNoi parliamo con fiducia
den! Cristo ha resucitado! Cristo ressuscidi questa vittoria dell’unità
tou! Chrystus zmarnell’amore e nella giustizia
twychwstal! Cristós a
inviat!
Ma il nostro ardimento
Questo, sì, è il grido
non è senza lacrime per lo spettacolo
della fede; ma esso è
testimonianza
d’una
che il mondo ancora ci dà
verità reale, che riempie il mondo della gloria di nostro Signore
Gesù Cristo, e riempie gli uomini politici di forze pericolose e d’interessi contrastanti. L’umanità vacilla
di luce e di speranza!
Esso è il principio d’una vita fra la pace e la guerra; fra l’associanuova,
d’una
rigenerazione zione organica e fraterna e il partidell’umanità, d’una risurrezione da colarismo incurante degli interessi e
ogni nostra infermità personale e dei bisogni altrui; fra la formazione
d’un mondo nuovo, più giusto e
sociale!
Esso è il centro d’attrazione per più buono, e il ritorno al mondo
la vera, fraterna e feconda unità vecchio, sorretto e oppresso dai
suoi armamenti e dai suoi calcoli
della famiglia umana.
Ricordate ciò che ha insegnato il miopi ed avari.
La libertà non è ancora la legge
concilio ecumenico: «In questo si è
mostrato l’amore di Dio per noi per normale di molti popoli; lo sanno
il fatto che l’unigenito
Figlio di Dio è stato
mandato dal Padre nel
mondo, affinché, fatto
uomo, con la redenzione rigenerasse il
genere umano e insieme lo radunasse. Ed
egli, prima di offrirsi
vittima
innocente
sull’altare della croce,
pregò il Padre per i
credenti, dicendo: Tutti siano una cosa sola... Esaltato poi sulla
croce e glorificato, il
Signore Gesù effuse lo
Spirito promesso, per
mezzo del quale chiamò e riunì nell’unità
della fede, della speranza e della carità il
popolo della nuova alleanza, che è la Chiesa» (Decreto sull’ecumenismo, 2).
La risurrezione di
Cristo
è
il
faro
dell’unità spirituale e
morale dell’umanità.
Unità degli uomini
con Dio, a lui riconciliati mediante quel
prodigio di misericordia e d’amore, che è la
redenzione per noi
sofferta ed a noi offerta da Cristo.
Unità degli uomini
Veglia pasquale in San Pietro (9 aprile 1966)
credenti nella profondità delle loro coscienze inondate dalla grazia, dalla pace e dal gaudio di Cri- tanti nostri figli e fratelli, tuttora
impediti nel franco e onesto esercisto medesimo.
Unità degli uomini fra loro, per- zio dei diritti della loro fede e delle
ché, resi aderenti ad unico maestro loro coscienze. La pace non è ancoe capaci di amore superiore, essi ra così stabilita nell’interno delle
trovano ormai la felicità nel volersi nazioni e fra le nazioni da consentibene e nel farsi del bene reciproca- re ai popoli l’ordinato progresso
mente. Noi parliamo con fiducia di verso i beni della civiltà moderna.
questa possibile vittoria dell’unità, La concezione della vita non ha annell’amore e nella giustizia, nella li- cora determinato la scala dei veri
bertà e nel progresso, perché a tan- valori, a cui occorra rivolgere gli
to ci conforta il mistero pasquale, animi, quelli specialmente delle gioeterna primavera della storia, fio- vani generazioni.
Il mondo ha tuttora bisogno di
rente, anche quest’anno, sulla terra
fecondata dalla risurrezione beata luce sapiente, ha bisogno di forza
morale, ha bisogno di speranze non
del Signore.
Ma il nostro ardimento non è fallaci, ha bisogno di pace, di besenza lacrime per lo spettacolo che nessere, di unità.
Per questo noi non temiamo di
il mondo ancora Ci dà, per la fatica, per la incoerenza, per l’opposi- dire: ha bisogno di Cristo. E per
zione, con cui esso cammina sulla questo ancora una volta noi diamo
via dell’unità, che è quella della pa- agli uomini aperti alla verità
ce, nella concordia e nella collabo- l’annuncio felice: Cristo è presente!
razione. Anni or sono, dopo l’im- perché Cristo è vivo! Cristo è
mane sciagura della guerra, propo- risorto!
morte e il funerale del Papa, sottolineò con acutezza che nessuna immagine divulgata su di lui si avvicinava alla realtà. «Chi fu in realtà
Montini?» si chiede l’autore del libro, «un prestigioso diplomatico?
Un intellettuale sensibile ai movimenti della cultura? Un aristocratico, gentile ma un poco distaccato?
L’uomo delle certezze anche impopolari o quello, come molti hanno
ripetuto, del dubbio? Si potrebbe
continuare (e taluno ancora continua); è certo — chiosa Sapienza —
che nemmeno Montini si riconoscerebbe in una o l’altra di tali immagini. Nessuna lo riflette». In realtà,
è stato un mistico.
«La gioia personale — annota
Papa Montini il 18 luglio 1974 —si
allarga in un inno cosmico alla
scoperta successiva del teatro misterioso e incommensurabile della
creazione. Io vivo in mezzo ad una
immensa, splendida, meravigliosa
epifania di cose che esistono; le cose del cielo, le cose della terra, le
cose del mio mondo. In un tentativo di sintesi di coscienza della reltà non posso rifiutarmi all’incantesimo dell’universo. Questo erompente stupore non può non esclamare e cantare benedicite omnia ope-
ra Domini Domino. Microbo nello
spazio e nel tempo, io posso almeno celebrare l’universo».
L’uomo non può salvarsi da solo, ripete Montini nei suoi appunti
personali, descrivendo il dramma
dell’umanità, composta di creature
“mancate”, «viventi in una natura
decaduta e viziata, operante in un
suo anormale funzionamento», una
condizione ereditata alla nascita
con il peccato originale e aggravata
nel tempo da errori, false partenze,
debolezze, malintesi. Questa consapevolezza, che sembrerebbe portare alle soglie della follia e della
disperazione, è invece motivo di riscatto. Citando l’amato Agostino,
Paolo VI ricorda a se stesso che «il
punto di incontro naturale con Dio
è nel cuore dell’uomo».
Come pochi, Paolo VI è riuscito
a risvegliare nell’uomo il brivido
del mistero e il senso della trascendenza, scrive Leonardo Sapienza
introducendo il suo libro. E davvero, rileggere queste pagine, nell’anno del Giubileo della Misericordia
voluto da Papa Francesco, permette di assaporare qualcosa dell’esperienza spirituale e del mondo interiore di Papa Montini.
L’OSSERVATORE ROMANO
pagina 6
domenica 27 marzo 2016
La santa tunica di Argenteuil
Venti anni fa l’uccisione in Algeria di sette monaci trappisti
I fiori di Tibhirine
PARIGI, 26. Sono trascorsi esattamente vent’anni dal rapimento dei
sette dei nove monaci trappisti, tutti
di nazionalità francese, che componevano la comunità di Notre-Dame
de l’Atlas a Tibhirine, vicino alla città di Médéa, in Algeria. Era infatti
la notte fra il 26 e il 27 marzo 1996
quando, in piena guerra civile, furono sequestrati da membri del Gruppo islamico armato (Gia) e tenuti
prigionieri per alcune settimane. Sarà lo stesso Gia a comunicare, il 21
maggio seguente, la morte dei sette
monaci appartenenti all’ordine dei
cistercensi della stretta osservanza. Il
30 maggio, non lontano dal luogo
del rapimento, vennero rinvenute le
loro teste; i corpi invece non vennero mai ritrovati. Per chiarire le circostanze della morte e far ottenere
giustizia ai familiari delle vittime è
tuttora aperta un’inchiesta. Nel 2014
i giudici francesi, dopo il consenso
delle autorità algerine, hanno potuto
essere presenti all’autopsia sui resti.
Nel 2015 le conclusioni degli esperti
hanno condotto a privilegiare l’ipo-
Concessa l’autorizzazione anche ai giovani di Gaza
Pasqua oltre la Striscia
GERUSALEMME, 26. Le autorità israeliane hanno rilasciato al
95 per cento dei richiedenti cristiani le autorizzazioni necessarie a uscire dai territori della Striscia, in occasione delle festività pasquali. E per la prima volta, dopo 8 anni, anche i giovani sotto i 35 anni potranno usufruire del permesso. La notizia ha suscitato l’entusiasmo dei fedeli, che potranno entrare
in Israele e visitare i luoghi sacri. Diversi di loro in queste ore
postano orgogliosi, sui social network, la foto del prezioso
documento rilasciato dalle autorità. A occuparsi dei permessi,
per la prima volta, è stata e la Chiesa cattolica. In occasione
delle festività del Natale e di Pasqua l’autorità militare israeliana, che controlla gli ingressi e le uscite dal checkpoint di
Erez, è solita concedere alcune autorizzazioni. Ma non a tutti.
Le richieste dei giovani sotto i 35 anni, infatti, venivano respinte. «Avevamo un solo giorno per presentare la domanda
— ha raccontato al sito del Patriarcato di Gerusalemme dei
Latini, padre Mario da Silva — e in quel giorno sono venute
890 persone. Abbiamo lavorato, dalla mattina alla sera tardi
per preparare tutti i documenti. Non sapevamo quanti permessi sarebbero stati concessi e con grande sorpresa abbiamo
appreso che sono state approvate il 95 per cento delle richieste. Ringraziamo il Signore per i benefici che ci concede».
tesi di una decapitazione post-mortem, rafforzando i dubbi che ancora
circondano le modalità del crimine.
Dopo vent’anni, la Francia non
dimentica Christian de Chergé, il
priore della comunità, Luc Dochier,
Christophe Lebreton, Michel Fleury,
Bruno Lemarchand, Célestin Ringeard, Paul Favre-Miville, martiri,
servi di Dio per la Chiesa cattolica, i
quali, pur consapevoli della situazione di pericolo (erano già stati più
volte minacciati dai gruppi fondamentalisti islamici), decisero di non
abbandonare il monastero per fedeltà alla loro missione. Lanciate alla
vigilia di Pasqua — riferisce il quotidiano «La Croix» in uno speciale
sull’avvenimento — le commemorazioni si susseguiranno durante l’anno in vari luoghi: per il 16 aprile
l’arcidiocesi di Algeri ha organizzato
un pellegrinaggio a Tibhirine, a fine
maggio il Comune di Parigi inaugurerà nel decimo arrondissement un
«Giardino dei monaci», il 17 settembre si svolgerà un incontro speciale
a Lione. Un modo per onorarne la
memoria non solo guardando al passato ma al «dono che dura ancora»,
quello del «martirio dei nostri fratelli e delle nostre sorelle che resta un
appello per la nostra vita oggi»,
hanno scritto in un messaggio comune i vescovi di Constantine, Paul
Desfarges (che è anche amministratore apostolico di Alger), di Laghouat, Claude Rault, e di Oran, JeanPaul Vesco. Un’occasione dunque
per ricordare anche gli altri dodici
consacrati (tra essi sei suore e monsignor
Pierre-Lucien
Claverie,
all’epoca vescovo di Oran) uccisi in
Algeria fra il 1994 e il 1996, così come tutte le migliaia di vittime della
guerra civile in Algeria: «Imam
morti per essersi rifiutati di firmare
delle fatwa che giustificavano la vio-
lenza, intellettuali e giornalisti che
hanno denunciato lo sviamento della religione o del senso della patria», osservano i presuli nel messaggio. Dal canto suo monsignor Henri
Teissier, arcivescovo emerito di Alger, in un’intervista spiega come
quell’«esistenza cristiana, vissuta in
prossimità con una società musulmana, nel rispetto di ciò che è e
senza nascondere la sua identità»,
resta un esempio, «l’ideale della mia
generazione».
Dopo il sequestro e l’uccisione dei
sette trappisti, la vita contemplativa
è praticamente scomparsa in Algeria.
Il futuro del monastero di Tibhirine,
affidato oggi a Jean-Marie Lassausse, prete della Mission de France,
resta incerto. La comunità di Chemin-Neuf, che ha fatto richiesta alle
autorità algerine per poter amministrare i luoghi, è ancora in attesa di
una risposta. Nel frattempo il priorato di Notre-Dame de l’Atlas si è
trasferito a Midelt, in Marocco,
presso una comunità di francescani
missionari di Maria. È là che vive
ancora padre Jean-Pierre Schumacher, uno dei due monaci scampati
al massacro (l’altro, Amédée Noto, è
morto nel 2008).
Di straordinaria intensità, e attualità, resta il testamento spirituale lasciato dal priore di Tibhirine, Christian de Chergé. Il testo venne redatto fra il dicembre 1993 e il gennaio 1994, ovvero oltre due anni prima dei tragici fatti, dopo che gli
islamisti lanciarono un ultimatum
intimando agli stranieri di lasciare il
suolo algerino. In esso si sottolinea
la scelta irrevocabile di una vita donata a Dio e al Paese africano e, soprattutto, il rispetto per i veri valori
dell’islam: «Non vedo come potrei
rallegrarmi del fatto che questo popolo che io amo venisse indistintamente accusato del mio assassinio.
Sarebbe pagare a un prezzo troppo
alto ciò che verrebbe chiamata,
forse, la “grazia del martirio”, doverla da un algerino, chiunque sia, soprattutto se egli dice di agire in fedeltà a ciò che crede essere l’islam.
È troppo facile mettersi la coscienza
a posto identificando questa via
religiosa con gli integralismi dei suoi
estremismi. L’Algeria e l’islam, per
me, sono un’altra cosa, sono un
corpo e un’anima. L’ho proclamato
abbastanza, in base a quanto ho visto e appreso per esperienza, ritrovando così spesso quel filo conduttore del Vangelo appreso sulle ginocchia di mia madre, la mia primissima Chiesa proprio in Algeria,
e, già allora, nel rispetto dei credenti
musulmani».
Una delegazione di Acs porterà in Iraq una lettera e i doni del Papa
Festa della speranza tra i fedeli di Erbil
ERBIL, 26. È una Pasqua all’insegna
della festa e della solidarietà quella
dei profughi cristiani di Mosul e
della piana di Ninive, attualmente
ospitati nei centri di accoglienza nel
Kurdistan iracheno.
Don Paolo Thabit Mekko, sacerdote caldeo di Mosul e responsabile
del campo profughi Occhi di Erbil,
alla periferia della capitale, ha raccontato ad AsiaNews come la comunità abbia organizzato una raccolta
di fondi e di denaro da devolvere a
famiglie cristiane e musulmane più
povere. La struttura ospita circa settecento persone in quarantasei miniappartamenti, con un’area in cui avvengono la raccolta e la distribuzione di aiuti umanitari. Per i più piccoli ci sono un asilo nido, una scuola materna e una secondaria.
In questa settimana santa, la comunità cristiana, colpita da persecuzioni e sofferenze, ha voluto ricordare a tutti che «c’è ancora vita, c’è
ancora speranza», ha sottolineato
don Paolo, il quale non rinuncia ancora una volta a «spronare i fedeli
esortandoli a rimanere saldi nella
propria fede. Il loro desiderio più
profondo — ha detto il sacerdote — è
quello di poter tornare, un giorno,
nelle proprie case. Guai a perdere il
fervore, smarrire la voglia di fare
festa».
Com’è noto, in Iraq a molti cristiani sono state sottratte illegalmente le abitazioni e altre proprietà attraverso la produzione di falsi documenti. Ed è molto difficile, se non
impossibile, il recupero da parte dei
legittimi proprietari. Tale fenomeno,
che in passato era stato registrato e
denunciato anche a Baghdad, si è
diffuso grazie a connivenze e coperture di funzionari corrotti e disonesti che si mettono a servizio di sin-
goli impostori e gruppi organizzati
di truffatori.
Nonostante le difficili condizioni
di vita, quest’anno numerose famiglie ospitate nel centro Occhi di Erbil hanno aderito all’iniziativa della
colletta per i più poveri. «Quanti
hanno ricevuto aiuti — ha spiegato il
sacerdote — hanno messo da parte
denaro e beni di prima necessità da
devolvere a famiglie più povere.
Speriamo che questa Pasqua sia davvero l’ultima in questa condizione di
profughi. Noi ci auguriamo di poter
tornare nelle nostre case, nei nostri
villaggi, e che questa festa sia occasione per ricordare al mondo la nostra disgrazia, il nostro dolore, le
nostre sofferenze».
I profughi cristiani di Mosul e
della piana di Ninive si avvicinano
alla Pasqua facendo rivivere le tradizioni e i canti della festa quando veniva celebrata nei villaggi, prima
dell’arrivo delle milizie del cosiddetto Stato islamico. «I fedeli — ha ri-
cordato don Paolo — cercano di recuperare quanto hanno lasciato alle
spalle, nel tentativo di riscoprire
l’appartenenza al luogo d’origine.
Qui, oggi, vi è una grande mescolanza fra i profughi che provengono
da luoghi diversi e hanno tradizioni
differenti. Non è più una festa del
villaggio e anche se vivono ad Ankawa (il quartiere cristiano di Erbil)
fanno fatica a restare in contatto fra
loro». Per questo don Paolo ha promosso attività comunitarie che mirano a recuperare le tradizioni dei villaggi nativi.
Fra le altre iniziative in programma un incontro fra le famiglie del
centro di accoglienza per lo scambio
di auguri e di doni; e ancora, la distribuzione delle uova di Pasqua da
colorare e una celebrazione comunitaria nella piazza del campo. «Certo, festeggiamenti diversi da quelli
di un tempo — ha ricordato il sacerdote — quando si organizzavano veri
e propri giochi, si tenevano danze,
canti e balli, si sfilava con una so-
lenne processione per le vie del villaggio. La situazione generale è triste, anche qui in Kurdistan vi sono
difficoltà e per questo non ce la sentiamo di promuovere manifestazioni
particolari».
La solidarietà ai cristiani iracheni
arriverà anche da parte di Aiuto alla
Chiesa che soffre (Acs) che dal 1° al
4 aprile invierà una delegazione a
Erbil. Nell’occasione Papa Francesco ha voluto affidare alcuni paramenti sacri e un suo personale contributo finanziario per i cristiani al
vescovo di Carpi, monsignor Francesco Cavina. «Non appena il Santo
Padre ha saputo di questo mio viaggio assieme ad Acs — ha detto il
presule — mi ha telefonato esprimendo il desiderio di inviare un dono ai nostri fratelli nella fede iracheni». Il Papa — si legge in un comunicato di Acs — ha inoltre consegnato a monsignor Cavina una lettera
in cui loda il viaggio organizzato da
Acs.
Un’eccezionale
ostensione
ARGENTEUIL, 26. Si tratta di un’ostensione eccezionale quella
cominciata ieri nella basilica di Saint-Denys ad Argenteuil, in
Francia. L’esposizione della santa tunica — comunemente considerata come una delle tre reliquie “tessili” della passione di
Cristo, assieme al sudario di Oviedo e alla sacra sindone di Torino — era infatti prevista nel 2034, ma il vescovo di Pontoise,
Stanislas Lalanne, «custode della santa tunica», ha deciso di
anticiparla in considerazione di tre importanti eventi: i cinquant’anni dell’istituzione della diocesi, il centocinquantesimo
anniversario di costruzione della basilica e, non ultimo, l’Anno
della misericordia indetto da Papa Francesco. Fino al 10 aprile
fedeli e visitatori potranno dunque sostare in preghiera davanti
alla tunica, che sarebbe stata donata ai benedettini di Argenteuil nell’803 da Carlo Magno, re dei Franchi.
Altro importante avvenimento in Francia è il giubileo della
diocesi di Le Puy-en-Velay, aperto solennemente ieri in cattedrale dal vescovo Luc Crepy. Fino al 15 agosto sono previste
celebrazioni, conferenze, animazioni culturali, e tre distinti giubilei che vedranno il coinvolgimento di tutte le parrocchie:
quello degli studenti, il 2 e 3 aprile, quello delle famiglie, dal 5
all’8 maggio, e quello degli artisti, dal 9 all’11 luglio.
Cristiani e musulmani in Malaysia
Nel segno del dialogo
KUALA LUMPUR, 26. Doveva essere
solo un incontro amichevole, per
rompere il ghiaccio dopo una stagione fatta di incomprensioni e sospetti reciproci. Invece, si è rivelato
l’occasione per porre le basi per un
dialogo inedito con la comunità
musulmana fondato sul rispetto e la
collaborazione. Alla vigilia della Pasqua, monsignor Sebastian Francis,
vescovo di Penang, Stato della Malaysia occidentale, torna così sull’incontro avuto all’inizio del mese con
il muftì locale, Datuk Dr Wan Salim Mohd Noor.
Un faccia a faccia che molti osservatori hanno definito come storico, anche perché si è trattato del secondo incontro fra leader cattolici e
musulmani in Malyasia, dopo quello avvenuto l’8 gennaio scorso fra
l’arcivescovo di Kuala Lumpur, Julian Leow Beng Kim, e il muftì dei
Territori federali, Zulkifli Mohamad
al-Bakri. Fino ad allora, infatti, i
leader islamici si erano sempre rifiutati di incontrare i rappresentanti
delle altre confessioni. «È stato
molto più che un incontro amichevole», dice il presule, che in un’intervista all’agenzia AsiaNews spiega
come questa nuova stagione di dialogo ha trovato la sua naturale collocazione nella preparazione che la
comunità cattolica locale ha svolto
in vista della Pasqua dell’anno santo della misericordia. «Abbiamo
parlato del bisogno di costruire
ponti fra le nostre comunità e abbiamo incoraggiato le ong, gli attivisti sociali e i partiti politici che lavorano per questo». Non solo, «abbiamo discusso dei punti di convergenza e delle differenze essenziali
che sussistono fra le nostre fedi. C’è
stato un sentimento di rispetto reciproco, di onestà e di trasparenza.
Abbiamo il dovere di abbracciare le
nostre radici comuni nel nostro comune padre Abramo». In questa
prospettiva, «entrambe le parti hanno espresso la necessità di incontrarsi a scadenza, in modo da creare
un forum continuativo di consultazione e dialogo». Soprattutto, aggiunge monsignor Francis, «ho colto l’occasione per condividere con
loro l’anno della misericordia, un
concetto molto caro ai musulmani».
Del resto, assicura il presule, la
diocesi di Penang — 66.000 cattolici
su circa 6 milioni di abitanti — si è
preparata alla Pasqua «con grande
interesse ed entusiasmo. In questo
anno giubilare della misericordia le
persone sono desiderose di rispondere all’appello del Santo Padre,
nello sperimentare e ricevere la misericordia di Gesù Cristo». Nella
diocesi sono state aperte tre porte
sante, 250 persone si sono preparate
per il battesimo e un altro gran numero di adulti riceverà il sacramento della Confermazione durante la
notte di Pasqua. «C’è stato un
grande aumento delle persone che
si accostano al sacramento della Riconciliazione. Abbiamo anche invitato — racconta il vescovo — sacerdoti dai Paesi vicini per servire il
grande numero di migranti cattolici
che sono nella diocesi di Penang».
È la prospettiva giusta, rileva ancora il presule, per affrontare una delle questioni più scottanti nei rapporti con la comunità islamiche: la
legge sulle “conversioni univoche” e
il fatto che i figli di coppie di religioni miste vengano registrati come
musulmani e affidati di fatto solo al
coniuge islamico. Una normativa
che incontra la netta contrarietà
non solo della Chiesa cattolica.
Lutto nell’episcopato
Monsignor Andreas Peter Cornelius Sol, vescovo emerito di Amboina in Indonesia, dei missionari del Sacro Cuore di Gesù, è
morto sabato 26 marzo. Aveva
compiuto cento anni lo scorso 15
ottobre. Il compianto presule era
nato ad Amsterdam-Sloten, in
diocesi di Haarlem-Amsterdam,
il 19 ottobre 1915 ed era stato ordinato sacerdote il 10 agosto
1940. Eletto alla Chiesa titolare
di Regiana e al contempo coadiutore di Amboina in Indonesia
il 10 dicembre 1963, aveva ricevuto l’ordinazione episcopale il 25
febbraio successivo. Il 15 gennaio
1965 era succeduto per coaduzione alla sede residenziale di Amboina. Il 10 giugno 1994 aveva
rinunciato al governo pastorale
della diocesi. Le esequie saranno
celebrate giovedì 31 marzo ad
Ambon.
L’OSSERVATORE ROMANO
domenica 27 marzo 2016
pagina 7
L’omelia del patriarca Roncalli per la Pasqua del 1956
Giorno di luce chiarissima
Pasqua del Signore; grande, la più
grande festa della santa Chiesa. La
preparammo quest’anno con più
distinta solennità ed attenzione secondo i nuovi ordinamenti liturgici
che meglio ci richiamano alle più
venuste tradizioni.
Il vostro Patriarca che l’ha seguita e l’ha presieduta, sovente anche lui con intensa commozione,
ecco torna a voi, a dirvene una parola di spirituale edificazione e a
recarvi il suggello della benedizione apostolica. Ma egli non si ripresenta a voi da solo: lo sapete,
per tutto quest’anno di centenaria
celebrazione, egli viene sempre, o
quasi sempre, tenendosi a braccetto col suo primo antecessore di
questo titolo: il protopatriarca san
Lorenzo Giustiniani. Potrebbe il
ben umile e modesto suo successore, presentarsi in compagnia più
onorifica, più santa e più gradita?
Saremo dunque due a parlare, il
protopatriarca ed io: due voci alternate come nei Salmi, ma uno
stesso sentimento, una stessa dottrina semplice, luminosa ed incoraggiante.
Pasqua del Signore, dunque:
passaggio di Gesù dalla umiliazione al trionfo, Agnello immolato
per la salute del mondo, divenuto
principe della pace, pace conchiusa tra Dio e l’uomo, il Creatore, il
Redentore e la creatura già peccatrice e proterva. Non è questo un
grande motivo di gioia, una ragione di festa cristiana?
Pubblichiamo un articolo apparso
oggi, sabato 26 marzo, sul sito di
«The Catholic Thing».
di ROBERT P. IMBELLI
Una delle gioie dell’affinità spirituale e intellettuale è quella di
consigliare all’altro un libro che
ha profondamente influenzato il
proprio cammino. E poi scoprire
che l’opera raccomandata ha, a
sua volta, arricchito la vita del
proprio studente o amico. Anche
Joseph Ratzinger ha ricevuto un
tale dono. Egli racconta come
uno studente più grande del seminario gli consigliò Cattolicismo,
il classico di Henri de Lubac, e
come quel libro “divenne una
pietra miliare fondamentale” del
suo percorso teologico.
Anche uno dei libri di Ratzinger ha raggiunto questo stesso
status di classico: Introduzione al
cristianesimo. L’ho raccomandato
con piacere a una generazione di
studenti di teologia e la loro risposta è stata caratterizzata dallo
stesso grato entusiasmo provato
dai loro predecessori che per la
prima volta ascoltarono le lezioni
tenute dal giovane teologo a Tubinga nel 1967.
Rileggendo di recente quest’opera insieme a un gruppo di
studenti universitari, sono rimasto ancora una volta colpito
dall’impatto che produce. L’unico rimpianto espresso, è stato che
nel loro percorso teologico, nessuno lo avesse fatto conoscere loro prima. Un capitolo dell’opera
sembrava parlare con una forza
particolare, vista la vicinanza al
grande triduo pasquale. Ratzinger propone una riflessione breve, ma penetrante, sull’articolo
del Credo degli apostoli che con-
La gioia della Pasqua è in verità
l’espressione più tipica della nostra
felicità di vivere nella santa Chiesa
di Gesù, nella quale si apprende e
si pratica il godere con chi gode, il
piangere con chi piange; e nel godere e nel piangere si gusta la dolcezza e il conforto della verace fraternità.
Oh, la bellezza del Natale,
quando intorno alla culla ed alla
grazia di Gesù Bambino adagiato
sulla paglia o riposante sulle ginocchia materne di Maria, ogni
cuore, di grandi e di piccoli, gusta
la tenerezza dell’innocenza, che è
sorriso e letizia delle famiglie cristiane!
Oh, la mestizia devota e pia di
questo triduo della Santa Settimana, in cui accanto a Maria, la Madre di Gesù, la Madre del condannato, del maledetto, del crocifisso,
c’eravamo tutti noi, in umiltà —
pontefici, sacerdoti, fedeli — tutti
penitenti e contriti con la Maddalena, coi soldati inconsci, coi poveri pescatori, coi discepoli timorosi,
ma pur amici sinceri, presi da uno
stesso sentimento di dolore, di
compassione per le sofferenze di
lui, che tutto volle sopportare per
dare verace significazione di espiazione e di merito ai nostri dolori.
Oggi invece è la vittoria di Cristo Risorto che celebriamo: oggi è
suggellata l’unione più intima fra
Gesù e la sua Chiesa. Questa è
giustamente proclamata, come si
dice di Maria, la genitrice naturale
dì Gesù: sposa, madre e vergine.
Sposa è infatti la santa Chiesa per
la mistica compenetrazione del suo
corpo vivente con Cristo che ne è
il capo, secondo la frase energica
del Cristo totale di sant’Agostino,
e secondo il pensiero più ampio di
san Paolo: «Il Cristo amò la sua
Chiesa e sacrificò se stesso per
lei».
Sposa di amore, dunque; sposa
di sangue la santa Chiesa. Tutti i
riti che si succedono nel corso
dell’anno liturgico sono una ricerca figurativa di queste nozze perenni, per cui la santa Chiesa segue sempre il suo Sposo. Questi
innanzi allo studio
della pia devozione
cattolica rinasce fanciullo a Betlemme;
con lei è adorato dai
Magi ed onorato di
doni preziosi; è accompagnato al tempio, riscattato con due
tenere colombe, salutato, sulle braccia del
vecchio venerabile, lume della rivelazione
delle genti e gloria del
popolo suo. Che più?
In tutti gli sviluppi
del sistema liturgico,
sapientemente disposti
durante l’anno, ad
ammonimento dei fedeli — qui è san Lorenzo nostro che parla
e scrive — ad irrobustimento dei giovani, a
letizia per i perfetti, splende evidente lo sforzo di rassomigliarsi
della Sposa allo Sposo.
Vergine, la santa Chiesa, sì, certamente, per la purezza della sua
santità; madre per la sovrabbondanza della sua spirituale fecondità, ma innanzitutto e sempre, sposa di amore e di sangue, unita intimamente e conformata a Gesù come al suo capo, compenetrata con
lui di cuore, di volontà, di anima,
di intenzioni: fatta tutta a tutti per
guadagnare tutti alla conoscenza,
all’amore di lui, costituente con
Gesù, il corpo mistico perfetto.
Oh, la testimonianza preziosa di
san Lorenzo nostro dal fondo lontano del suo secolo, alla fresca, imponente ed esaltante dottrina del
Corpo mistico, che fu una delle
prime illustrazioni del sacro ministero del nostro Santo Padre Pio
XII. Ebbene, miei fratelli e figlioli:
per la risurrezione gloriosa di Gesù noi siamo al vertice di questa
dottrina, e ciò spiega le ragioni
profonde del nostro gaudio di Pasqua, e perché ripetiamo senza arrestarci: ecco, è il giorno che ha
fatto il Signore, esultiamo e rallegriamoci in esso.
Con ciò tutto è spiegato: l’accendersi del cero pasquale: lumen
Christi a rompere le tenebre della
notte, la rinnovazione delle acque
salutari del sacro fonte della grazia, lo scroscio delle campane, il
crepitare degli organi, i bianchi
paludamenti sacerdotali; qui in
San Marco da queste volte meravigliose, dai mosaici iridescenti, i
santi del cielo invitati ad unirsi alle supplicazioni della terra per i
bisogni della santa Chiesa e del
mondo intero, e fuori di qui in
esultanza universale della Chiesa
madre nei figli suoi, e sulle piazze
e nelle vie, anche ora, come ai
tempi di san Lorenzo: canto
dell’alleluja alla gloria di Cristo risorto.
Questo, infatti, ripetiamolo è il
giorno di luce chiarissima, il più
celebre, il più santo di tutti i secoli, da quando il Creatore del mondo, risorgendo dalla morte, ricon-
dusse al mondo la vita. L’antico
chirografo della condanna fu stracciato, la colpa originale trovò il
perdono. Ciò che fu seminato nella carne risorge nello spirito, e
l’ignobilità della natura umana è
tramutata in gloria.
Tre fuori corso
di LORIS FRANCESCO CAPOVILLA
Sono lieto di celebrare la Pasqua con voi tutti in
stretta comunione con uomini e donne di buona
volontà che abitano questa terra tormentata da
problemi e sofferenze. Quanto sarebbe bello se,
nell’anno della misericordia, riuscissimo a fare nostre le parole di san Giovanni Crisostomo, indicate
da Papa Giovanni nella sua prima enciclica Ad Petri cathedram, quale punto di riferimento per una
condotta di vita pura e generosa: «Non sarebbe
neppure necessaria la dottrina, se la nostra vita fosse a tal punto irradiante; non sarebbe necessario ricorrere alle parole, se le nostre opere dessero tale
testimonianza. Non ci sarebbe nessun pagano se ci
comportassimo da veri cristiani».
Papa Francesco, amico e cantore dei santi, è con
noi e ci assicura che la dottrina con tanto entusiasmo, proposta all’attenzione, riflessione e applicazione di un mondo trepidante, avrà il suo compimento, come lasciano anche sperare le parole di
san Lorenzo: «A consolazione e delizia del mondo
intero».
Ho sempre davanti agli occhi un pomeriggio di
maggio 1963, allorquando il cardinale Amleto Giovanni Cicognani, uscendo da una prolungata conversazione con il Papa gravemente malato, desideroso di sollevarlo con un momento di letizia, mi
disse con voce commossa: «Sarebbe bello procurare al Santo Padre la consolazione, come egli desidererebbe, di vedere incoronati san Lorenzo Giustiniani (1381-1456), san Bernardino da Siena (13801444) e sant’Antonino Pierozzi (1389-1459) coll’alloro di dottore della Chiesa. Comunichiamo alla
stampa che il 1° novembre sarà proclamato il dottorato dei tre santi a Lui tanto cari». I monsignori
che l’accompagnavano erano essi pure plaudenti
ed esultanti.
Mi permisi di osservare: «Questo auspicabile desiderio si avvererà sicuramente un giorno, quando
però Papa Giovanni avrà già concluso il suo servizio alla Chiesa e all’umanità qui sulla terra, continuandola nei cieli altissimi».
Per questo mi accade spesso di dire adesso che
ci sono tre aspiranti “fuori corso” privi del prestigioso titolo. In memoria della esultanza di Papa
Roncalli lo auspico tra i motivi di rinnovamento di
tutta la nostra azione pastorale. Questi tre servitori
della Chiesa si ripresenteranno un giorno al mondo con l’aureola del dottorato. Avvenga o non avvenga, in breve o lungo tempo, proviamo gioia nel
coltivare questo voto del cuore a coronamento del
concilio Vaticano II, avviato da Papa Giovanni,
con la connotazione della pastoralità che era propria dei tre santi.
Il sabato santo nelle riflessioni di Joseph Ratzinger
Liberati dalla prigionia
fessa la discesa agli inferi di Cristo. Come si nota nell’intero libro, l’autore ha un’acuta consapevolezza della necessità di rivolgersi all’uomo o alla donna contemporanei, che trovano il linguaggio della fede sconcertante,
se non quasi mitologico. Egli formula,
dunque,
direttamente
l’obiezione: «Forse nessun articolo del Credo è così distante
dall’atteggiamento mentale del
presente come questo». Una soluzione superficiale, sostenuta dai
demitizzatori di diverse tendenze,
è di eliminare semplicemente la
pietra d’inciampo. Si potrebbe
definire questa l’«opzione Bultmann». Ma Ratzinger è troppo
rispettoso della tradizione e studia con troppo discernimento la
condizione umana per scegliere
una scappatoia tanto semplice.
Come un mistagogo, egli sonda invece il mistero, associato in
particolare al sabato santo, e scopre che di fatto risuona con particolare forza in un tempo in cui
Dio sembra essere diventato silenzioso, vistosamente assente
dalle questioni umane, «sicché
non occorre più negarlo, ma lo si
può semplicemente ignorare».
Tra le intuizioni proposte da
Ratzinger c’è un’analisi dell’“inferno” profondamente ponderata.
Egli scrive: «Se ci fosse qualcosa
come una solitudine che non può
più essere penetrata e trasformata
dalla parola di un’altra persona;
se si creasse uno stato di abbandono tanto profondo che nessun
“Tu” lo può più raggiungere, al-
lora avremmo reale e totale solitudine e orrore, ciò che la teologia chiama “inferno”».
Dunque, proprio con la sua discesa agli inferi Gesù affronta
l’isolamento radicale e la privazione che la morte comporta.
Con la sua discesa, egli porta comunione a quanti soffrono il dolore dell’allontanamento. È questo il compimento della sua passione per la comunione: Gesù,
che non conosceva peccato, beve
il calice del peccaminoso allontanamento dagli altri e dall’Altro
fino al suo fondo amaro, rendendolo un calice di benedizione e
di rendimento di grazie. Pertanto, afferma Ratzinger, «nella sua
passione
Cristo
è
disceso
nell’abisso del nostro abbandono.
Dove nessuna voce può più raggiungerci, là c’è lui... La morte
non è più il cammino verso la
gelida solitudine; le porte dello
sheol sono state aperte».
Proprio come Joseph Ratzinger avrebbe desiderato, le sue osservazioni hanno suscitato ulteriori riflessioni in quanti hanno
letto il suo libro. Il testo stesso
non affronta in modo esplicito la
questione se la discesa di Cristo
agli inferi realizza la salvezza di
tutti: la posizione tradizionalmente definita “apocatastasis”.
Molti, oggi, direbbero che di fatto possiamo «osare sperare che
tutti possano essere salvati» (come si legge in un libro di von
Balthasar); ma saggiamente si
astengono da qualsiasi pronunciamento apodittico. In maniera
analoga, ponderando il mistero
della discesa un pensiero è emerso. Richiama la straordinaria leggenda del Grande Inquisitore ne
I Fratelli Karamazov di Dostoevskij. La discesa di Cristo tra i
morti, la sua presenza tra loro
nella loro terribile solitudine, è
simile a un abbraccio silenzioso,
a un bacio, non di tradimento,
ma di amore e compassione. Offre perdono, risanamento e rinnovamento. Ma in ultimo l’abbraccio può essere rifiutato e respinto. E la creatura libera può
scegliere di girarsi dall’altra parte, avvizzendo dentro di sé fino
al punto di non-essere.
Quarant’anni dopo che il giovane Joseph Ratzinger ha tenuto
le sue splendide lezioni, l’anziano
Benedetto XVI ha scritto la sua
straordinaria enciclica Spe salvi,
sulla speranza cristiana. In essa,
ammette che possono esserci
«persone in cui tutto è diventato
menzogna; persone che hanno
vissuto per l’odio e hanno calpestato in se stesse l’amore». Tragicamente, tali persone potrebbero
non pentirsi anche se qualcuno
risorgesse dai morti.
Ad ogni modo, la parola ultima continua a essere speranza.
Non una speranza incentrata su
se stessi, una speranza privata,
bensì una speranza radicalmente
comune e pertanto veramente
cattolica. Con parole nelle quali
riecheggia ancora la scoperta del
Cattolicismo di de Lubac, Benedetto scrive: «La nostra speranza
è sempre essenzialmente anche
speranza per gli altri; solo così
essa è veramente speranza anche
per me. Da cristiani non dovremmo mai domandarci solamente:
come posso salvare me stesso?
Dovremmo domandarci anche:
che cosa posso fare perché altri
vengano salvati e sorga anche per
altri la stella della speranza? Allora avrò fatto il massimo anche
per la mia salvezza personale» .
La grande icona orientale della
Risurrezione mostra il Cristo vittorioso che discende nello sheol.
Afferra saldamente le mani dei
nostri progenitori, liberandoli dal
loro autoimprigionamento. Ma
l’immaginazione cristiana può
raffigurare anche il seguito.
Avendoli liberati dalla prigionia,
Gesù ora li volge l’uno verso l’altra affinché, dopo una così lunga
separazione e ostilità, possano di
nuovo abbracciarsi.
L’abbraccio silenzioso del sabato santo, prima di ascendere
insieme alla gioia pasquale.
L’OSSERVATORE ROMANO
pagina 8
domenica 27 marzo 2016
Nella preghiera di Papa Francesco al termine della Via crucis al Colosseo
Le croci
dell’umanità
Nella tarda serata del Venerdì santo, 25 marzo,
il Papa ha presieduto la Via crucis al Colosseo.
Di seguito la preghiera composta da Francesco e
recitata al termine delle quattordici stazioni
prima della benedizione finale.
O Croce di Cristo, simbolo dell’amore divino
e dell’ingiustizia umana, icona del sacrificio
supremo per amore e dell’egoismo estremo
per stoltezza, strumento di morte e via di
risurrezione,
segno
dell’obbedienza
ed
emblema del tradimento, patibolo della
persecuzione e vessillo della vittoria.
O Croce di Cristo, ancora oggi ti vediamo
eretta nelle nostre sorelle e nei nostri fratelli
uccisi, bruciati vivi, sgozzati e decapitati con
le spade barbariche e con il silenzio vigliacco.
O Croce di Cristo, ancora oggi ti vediamo nei
volti dei bambini, delle donne e delle
persone, sfiniti e impauriti che fuggono dalle
guerre e dalle violenze e spesso non trovano
che la morte e tanti Pilati con le mani lavate.
Scossa alle coscienze
Quando già le ombre della sera erano
calate su Roma e sulle migliaia di
fiammelle tenute in mano dai fedeli
raccolti davanti al Colosseo, Francesco
si è alzato. Alle spalle aveva la grande
croce fiammeggiante innalzata sulla
terrazza adiacente alla chiesa di Santa
Francesca Romana. E la croce aveva
anche nel cuore e sulle labbra, quella
croce che — come scandito per ben
trenta volte nella sua lunga preghiera
finale — accoglie le miserie, le sofferenze ma anche la bontà degli uomini e ci
insegna «che l’apparente vittoria del
male si dissipa davanti alla tomba vuota e di fronte alla certezza della risurrezione».
Scuotendo le coscienze delle decine
di migliaia di fedeli presenti sul colle
Palatino e dei milioni di spettatori che
hanno seguito, nella serata del 25 marzo, la via crucis del Venerdì santo attraverso la televisione, la radio o la rete, il Pontefice ha lentamente passato
in rassegna le ferite profonde del mondo, a cominciare da quelle della Chiesa, passando per le atrocità dei fondamentalisti e del terrorismo, per arrivare
a quell’«insaziabile cimitero» che sono
divenuti il Mediterraneo e l’Egeo, immagini «della nostra coscienza insensibile e narcotizzata»: un vero e proprio
grido di dolore sostenuto, però, dalla
speranza della fede.
Così il Papa ha concluso la celebrazione che ogni anno, in un luogo altamente simbolico per la storia cristiana,
ripercorre le ultime ore della vita terrena di Gesù, dalla condanna davanti a
Ponzio Pilato fino alla morte sul patibolo e alla deposizione nel sepolcro.
Francesco è giunto alle 21.05, accolto
dal reggente della Prefettura della Casa pontificia, monsignor Leonardo Sapienza, e dal commissario straordinario
di Roma, Francesco Paolo Tronca. Subito dopo il canto, eseguito dalla Cappella Sistina diretta dal maestro Palombella, il Pontefice ha introdotto
con il segno della croce il rito da lui
presieduto e diretto da monsignor
Poveri
per i poveri
Nella serata del Venerdì santo, mentre era in corso la Via crucis al Colosseo, l’arcivescovo elemosiniere
Konrad Krajewski, accompagnato
da alcuni suoi collaboratori volontari e da alcuni senzatetto ospiti del
dormitorio «Dono di misericordia»,
si è recato per le vie di Roma in
unione spirituale con il rito presieduto dal Pontefice. Alle persone incontrate per strada sono stati distribuiti sacchi a pelo e un piccolo dono — “una carezza” — da parte di
Papa Francesco. Si è trattato così di
una singolare Via crucis in città, di
circa cento stazioni, terminata dopo
la mezzanotte.
Guido Marini, maestro delle Celebrazioni liturgiche pontificie.
Quello che Francesco, con sintesi
potente, avrebbe poi racchiuso nella
preghiera conclusiva, si è sciolto e dipanato, a questo punto, nel succedersi
delle quattordici stazioni grazie alle
meditazioni scritte dal cardinale Gualtiero Bassetti, arcivescovo di Perugia Città della Pieve, e lette dagli speaker
Orazio Coclite e Francesca Fialdini.
La croce, lungo la processione che si è
snodata tra le arcate del Colosseo, è
passata di mano in mano, espressione
di un’intera comunità umana che ha
bisogno di sorreggersi al legno della
salvezza. Per la prima e l’ultima stazione il crocifero è stato il cardinale Agostino Vallini, vicario di Roma. Poi,
dalla seconda alla quinta sosta, è stata
rappresentata la speciale normalità della vita quotidiana con due famiglie, un
disabile assistito dalla sorella e da un
barelliere dell’UNITALSI e quindi, alla
quinta stazione, il direttore, un’insegnante e due allieve di uno dei centri
dell’Associazione formazione Giovanni
Piamarta (Afgp), che si occupa di svolgere attività di educazione e formazione con particolare riguardo ai giovani
e ai lavoratori.
Quando poi la meditazione dell’arcivescovo Bassetti — alla sesta stazione,
quella della Veronica — si è soffermata
sul volto «dei milioni di profughi, rifugiati e sfollati che fuggono disperatamente dall’orrore delle guerre, delle
persecuzioni e delle dittature», il testimone della fede è cominciato a passare
tra mani provenienti da tutto il mondo: Cina, Russia, Paraguay, Bosnia,
Ecuador, Uganda, Kenya, Messico Repubblica Centrafricana, Stati Uniti
d’America, Bolivia. Alla dodicesima
stazione, memoria della morte in croce
di Gesù, la preghiera ha ricordato «la
luce immensa» lasciata dai martiri del
XX secolo, con esempi come quelli di
Massimiliano Kolbe ed Edith Stein, e
ha sottolineato come «ancora oggi il
corpo di Cristo è crocifisso in molte
regioni della terra» e che «i martiri del
XXI secolo sono i veri apostoli del
mondo contemporaneo». Significativamente, a portare la croce erano due siriani assistiti dalla comunità di
Sant’Egidio, seguiti poi da due frati
della Custodia di Terra Santa. Per l’ultima stazione, posta a fianco del baldacchino dove si trovava il Pontefice,
il simbolo dell’estremo sacrificio di
Cristo è quindi tornato nelle mani del
cardinale vicario il quale, durante l’intera processione, è stato accompagnato
dall’arcivescovo vicegerente Filippo
Iannone. Fra i fedeli presenti nella terrazza che si affaccia sul Colosseo,
c’erano anche il cardinale Darío Castrillón Hoyos e il vescovo Marcelo
Sánchez Sorondo.
Alle spalle del Papa, hanno seguito
la Via crucis gli arcivescovi Angelo
Becciu, sostituto della Segreteria di
Stato, e Georg Gänswein, prefetto della Casa pontificia, e l’assessore della
Segreteria di Stato, monsignor Paolo
Borgia, che avevano accompagnato
Francesco al Colosseo dopo aver par-
tecipato nel pomeriggio a San Pietro
alla celebrazione della passione del Signore presieduta dal Pontefice.
Momento centrale della liturgia del
Venerdì santo, il rito si è aperto con la
suggestiva immagine del Papa prostrato a terra davanti all’altare della Confessione, nella penombra silenziosa
della basilica vaticana. Subito dopo essersi rialzato, il Pontefice ha preso posto sul lato sinistro della navata di
fronte alla statua di San Pietro e con
la preghiera Reminiscere miserationum
tuarum, Domine ha dato inizio alla liturgia della parola. Dopo le letture, è
stato cantato in latino il racconto della
passione secondo Giovanni da tre diaconi accompagnati dal coro della Cappella Sistina.
Terminata l’omelia di padre Cantalamessa, predicatore della Casa pontificia, il Pontefice ha introdotto la preghiera universale: si è pregato per la
Chiesa, il Papa, per tutti gli ordini sacri e tutti i fedeli, i catecumeni, per
l’unità della Chiesa, gli ebrei, i non
cristiani, per coloro che non credono
in Dio, i governanti e i tribolati. Al
termine, un diacono e due accoliti con
i candelieri hanno portato la croce dal
fondo della basilica, facendo tre soste.
A ogni fermata è stato cantato Ecce lignum e la croce è stata alzata. Tutti i
presenti si sono inginocchiati in adorazione silenziosa.
Dopo la terza sosta, davanti alla statua di san Pietro, il Papa, indossando
solo il camice bianco e la stola rossa,
ha compiuto l’adorazione della croce,
che successivamente è stata portata
all’altare della Confessione, dove è stata baciata da 37 cardinali — tra i quali
Parolin, segretario di Stato, e Sodano,
decano del Collegio cardinalizio — e
dagli altri presuli e prelati della Curia
romana presenti, come pure dai rappresentanti del corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, con i
quali erano l’arcivescovo Gallagher, segretario per i Rapporti con gli Stati, e
monsignor Bettencourt, capo del Protocollo.
O Croce di Cristo, ancora oggi ti vediamo nei
dottori della lettera e non dello spirito, della
morte e non della vita, che invece di
insegnare la misericordia e la vita, minacciano
la punizione e la morte e condannano il
giusto.
O Croce di Cristo, ancora oggi ti vediamo nei
ministri infedeli che invece di spogliarsi delle
proprie vane ambizioni spogliano perfino gli
innocenti della propria dignità.
O Croce di Cristo, ti vediamo ancora oggi nei
cuori impietriti di coloro che giudicano
comodamente gli altri, cuori pronti a
condannarli perfino alla lapidazione, senza
mai accorgersi dei propri peccati e colpe.
O Croce di Cristo, ti vediamo ancora oggi nei
fondamentalismi e nel terrorismo dei seguaci
di qualche religione che profanano il nome di
Dio e lo utilizzano per giustificare le loro
inaudite violenze.
O Croce di Cristo, ti
vediamo ancora oggi in
coloro che vogliono
toglierti dai luoghi
pubblici ed escluderti
dalla vita pubblica, nel
nome di qualche
paganità laicista o
addirittura in nome
dell’uguaglianza che tu
stesso ci hai insegnato.
samaritani — che abbandonano tutto per
bendare, nel silenzio evangelico, le ferite delle
povertà e dell’ingiustizia.
O Croce di Cristo, ti vediamo ancora oggi nei
misericordiosi che trovano nella misericordia
l’espressione massima della giustizia e della
fede.
O Croce di Cristo, ti vediamo ancora oggi
nelle persone semplici che vivono
gioiosamente la loro fede nella quotidianità e
nell’osservanza filiale dei comandamenti.
O Croce di Cristo, ti vediamo ancora oggi nei
pentiti che sanno, dalla profondità della
miseria dei loro peccati, gridare: Signore
ricordati di me nel Tuo regno!
O Croce di Cristo, ti vediamo ancora oggi nei
beati e nei santi che sanno attraversare il buio
della notte della fede senza perdere la fiducia
in te e senza pretendere di capire il Tuo
silenzio misterioso.
O Croce di Cristo, ti
vediamo ancora oggi
nei potenti e nei
venditori di armi che
alimentano la fornace
delle guerre con il
sangue innocente dei
fratelli e danno ai loro
figli da mangiare il
pane insanguinato.
O Croce di Cristo, ti
vediamo ancora oggi
nei traditori che per
trenta denari
consegnano alla morte
chiunque.
O Croce di Cristo, ti vediamo ancora oggi nei
ladroni e nei corrotti che invece di
salvaguardare il bene comune e l’etica si
vendono nel misero mercato dell’immoralità.
O Croce di Cristo, ti vediamo ancora oggi
negli stolti che costruiscono depositi per
conservare tesori che periscono, lasciando
Lazzaro morire di fame alle loro porte.
O Croce di Cristo, ti vediamo ancora oggi nei
distruttori della nostra “casa comune” che con
egoismo rovinano il futuro delle prossime
generazioni.
O Croce di Cristo, ti vediamo ancora oggi
negli anziani abbandonati dai propri
famigliari, nei disabili e nei bambini denutriti
e scartati dalla nostra egoista e ipocrita
società.
O Croce di Cristo, ti vediamo ancora oggi nel
nostro Mediterraneo e nel mar Egeo divenuti
un insaziabile cimitero, immagine della nostra
coscienza insensibile e narcotizzata.
O Croce di Cristo, immagine dell’amore
senza fine e via della Risurrezione, ti vediamo
ancora oggi nelle persone buone e giuste che
fanno il bene senza cercare gli applausi o
l’ammirazione degli altri.
O Croce di Cristo, ti vediamo ancora oggi nei
ministri fedeli e umili che illuminano il buio
della nostra vita come candele che si
consumano gratuitamente per illuminare la
vita degli ultimi.
O Croce di Cristo, ti vediamo ancora oggi nei
volti delle suore e dei consacrati — i buoni
O Croce di Cristo, ti vediamo ancora oggi
nelle famiglie che vivono con fedeltà e
fecondità la loro vocazione matrimoniale.
O Croce di Cristo, ti vediamo ancora oggi nei
volontari che soccorrono generosamente i
bisognosi e i percossi.
O Croce di Cristo, ti vediamo ancora oggi nei
perseguitati per la loro fede che nella
sofferenza continuano a dare testimonianza
autentica a Gesù e al Vangelo.
O Croce di Cristo, ti vediamo ancora oggi nei
sognatori che vivono con il cuore dei bambini
e che lavorano ogni giorno per rendere il
mondo un posto migliore, più umano e più
giusto.
In te Santa Croce vediamo Dio che ama fino
alla fine, e vediamo l’odio che spadroneggia e
acceca i cuori e le menti di coloro che
preferiscono le tenebre alla luce.
O Croce di Cristo, Arca di Noè che salvò
l’umanità dal diluvio del peccato, salvaci dal
male e dal maligno! O Trono di Davide e
sigillo dell’Alleanza divina ed eterna, svegliaci
dalle seduzioni della vanità! O grido di
amore, suscita in noi il desiderio di Dio, del
bene e della luce.
O Croce di Cristo, insegnaci che l’alba del
sole è più forte dell’oscurità della notte. O
Croce di Cristo, insegnaci che l’apparente
vittoria del male si dissipa davanti alla tomba
vuota e di fronte alla certezza della
Risurrezione e dell’amore di Dio che nulla
può sconfiggere od oscurare o indebolire.
Amen!