L`O S S E RVATOR E ROMANO
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Transcript L`O S S E RVATOR E ROMANO
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L’OSSERVATORE ROMANO
EDIZIONE SETTIMANALE
Unicuique suum
Anno LXVI, numero 2 (3.824)
IN LINGUA ITALIANA
Non praevalebunt
Città del Vaticano
Giovedì 14 gennaio 2016
Il dramma delle migrazioni al centro del discorso del Pontefice al corpo diplomatico
Per non perdere i principi di umanità
Fenomeno
mondiale
Il panorama disegnato dal Papa nel tradizionale discorso
d’inizio anno agli ambasciatori
conferma che lo sguardo della
Chiesa di Roma su «questo
nostro mondo, benedetto e
amato da Dio, eppure travagliato e afflitto da tanti mali»
ha un’ottica davvero planetaria. E questo punto di vista
mondiale sa abbracciare con
lucidità e altrettanta speranza i
due fenomeni che più inquietano e preoccupano la comunità
internazionale: l’onda crescente
della violenza che usa e quindi
bestemmia il nome di Dio da
una parte, il dramma che segna gran parte delle migrazioni dall’altra.
Di fronte a queste emergenze il Pontefice riprende il tema
centrale della misericordia, che
è al cuore del Vangelo. Per
questo sin dall’inizio del pontificato Bergoglio vi insiste, al
punto da aver indetto un giubileo straordinario della misericordia che ha voluto aprire
nella Repubblica Centrafricana. Indicata come filo conduttore dei viaggi internazionali
dell’anno appena trascorso, è
infatti la misericordia che permette di avanzare insieme e di
ripetere, come Francesco con i
musulmani di Bangui, che «chi
dice di credere in Dio dev’essere anche un uomo o una donna di pace».
Come i predecessori, Francesco oggi ribadisce che «ogni
esperienza religiosa autenticamente vissuta non può che
CONTINUA A PAGINA 20
Alla «grave emergenza migratoria che
stiamo affrontando» Francesco ha dedicato i passaggi più significativi del
discorso al corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, riunito
lunedì mattina, 11 gennaio, nella Sala
Regia per la tradizionale udienza di
inizio anno.
L’incontro ha offerto al Pontefice
l’occasione per un’ampia panoramica
internazionale. Preceduta dalla significativa sottolineatura dei risultati
dell’impegno diplomatico della Santa
Sede nel 2015, anno in cui è cresciuto
il numero di ambasciatori residenti a
Roma e sono stati conseguiti importanti accordi. Un’attività che ha trovato nuove motivazioni e prospettive
nel “filo conduttore” della misericordia indicato dal Papa con l’indizione
del giubileo straordinario. Nel ricordarlo il Pontefice ha ribadito la necessità di «ritrovare le ragioni del dialogo» e di respingere in particolare
ogni tentativo di utilizzare la religione «per commettere ingiustizia nel
nome di Dio», come è avvenuto nei
sanguinari attentati terroristici dei
mesi scorsi in Africa, Europa e Medio
oriente.
Rivolgendo lo sguardo alla complessa attualità mondiale, carica di
«sfide» e attraversata da «non poche
tensioni», il Papa ha puntato l’attenzione sul fenomeno migratorio. Nel quale — ha
osservato — finiscono per concentrarsi le conseguenze delle
grandi tragedie
umanitarie che
affliggono oggi il
All’udienza generale il Papa parla della misericordia del Padre
Chi fa il primo passo
PAGINA 2
pianeta: guerre, violazioni dei diritti
umani, persecuzioni a sfondo religioso, miseria estrema, malnutrizione,
cambiamenti climatici. Drammi che
alimentano veri e propri esodi di
massa, spingendo milioni di uomini,
donne e bambini a fuggire dalle loro
terre per sottrarsi a violenze e «barbarie indicibili praticate verso persone indifese».
«Gran parte delle cause delle migrazioni — è la realistica constatazione di Francesco — si potevano affrontare già da tempo». Ma ancora oggi
«molto si potrebbe fare per fermare
le tragedie e costruire la pace». A
patto, tuttavia, che si abbia il
coraggio di rimettere in
discussione «abitudini e
prassi consolidate»: a cominciare da quelle legate al
commercio
delle
armi,
all’approvvigionamento
di
materie prime e di energia, agli
investimenti, alle politiche finanziarie e di sviluppo. Per il Pontefice c’è bisogno di «progetti a medio e
lungo termine che vadano oltre la risposta di emergenza», col duplice intento di «aiutare effettivamente l’integrazione dei migranti nei Paesi di accoglienza» e di favorire «lo sviluppo
dei Paesi di provenienza con politiche
solidali».
Mentre i massicci sbarchi in Europa sembrano far vacillare il sistema di
accoglienza, l’appello di Francesco al
vecchio continente è di non perdere
«i valori e i principi di umanità», salvaguardando il giusto equilibrio fra il
«dovere morale di tutelare i diritti dei
propri cittadini» e quello di «garantire l’assistenza e l’accoglienza dei migranti». Fermo restando per chi arriva «il dovere di rispettare i valori, le
tradizioni e le leggi della comunità»
ospitante. Dal Papa particolari espressioni di gratitudine nei confronti di
quei Paesi, fra i quali l’Italia, che
hanno mostrato generosità verso i rifugiati: «è importante — ha auspicato
— che le nazioni in prima linea non
siano lasciate sole».
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L’OSSERVATORE ROMANO
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giovedì 14 gennaio 2016, numero 2
Marc Chagall, «Mosè riceve
le tavole della Legge» (1956)
Udienza generale sulla misericordia del Padre
Chi fa
il primo passo
«L’amore che fa il primo passo, che non dipende dai meriti umani ma
da un’immensa gratuità»: così Papa Francesco ha definito la misericordia divina
durante l’udienza generale di mercoledì 13 gennaio. Con i fedeli presenti nell’Aula
Paolo VI il Pontefice ha iniziato un nuovo ciclo di riflessioni dedicato
alla tematica giubilare secondo la prospettiva biblica, in modo da impararla — ha
spiegato — «ascoltando quello che Dio stesso ci insegna con la sua parola».
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Oggi iniziamo le catechesi sulla misericordia secondo la prospettiva biblica,
così da imparare la misericordia
ascoltando quello che Dio stesso ci
insegna con la sua Parola. Iniziamo
dall’Antico Testamento, che ci prepara
e ci conduce alla rivelazione piena di
Gesù Cristo, nel quale in modo
compiuto si rivela la misericordia del
Padre.
Nella Sacra Scrittura, il Signore è
presentato come “Dio misericordioso”.
È questo il suo nome, attraverso cui
Egli ci rivela, per così dire, il suo
volto e il suo cuore. Egli stesso, come narra il Libro dell’Esodo, rivelandosi a Mosè si autodefinisce così:
«Il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà» (34, 6). Anche in altri testi ritroviamo questa formula, con qualche variante, ma sempre l’insistenza
è posta sulla misericordia e sull’amo-
re di Dio che non si stanca mai di
perdonare (cf. Gn 4, 2; Gl 2, 13; Sal
86, 15; 103, 8; 145, 8; Ne 9, 17). Vediamo insieme, una per una, queste
parole della Sacra Scrittura che ci
parlano di Dio.
Il Signore è “misericordioso”: questa parola evoca un atteggiamento di
tenerezza come quello di una madre
nei confronti del figlio. Infatti, il termine ebraico usato dalla Bibbia fa
pensare alle viscere o anche al grembo materno. Perciò, l’immagine che
suggerisce è quella di un Dio che si
commuove e si intenerisce per noi come
una madre quando prende in braccio il suo bambino, desiderosa solo
di amare, proteggere, aiutare, pronta
a donare tutto, anche sé stessa. Questa è l’immagine che suggerisce questo termine. Un amore, dunque, che
si può definire in senso buono “viscerale”.
Poi è scritto che il Signore è “pietoso”, nel senso che fa grazia, ha
compassione e, nella
sua grandezza, si china su chi è debole e
povero, sempre pronto
ad accogliere, a comprendere, a perdonare.
È come il padre della
parabola riportata dal
Vangelo di Luca (cfr.
Lc 15, 11-32): un padre
che non si chiude nel
risentimento per l’abbandono del figlio
minore, ma al contrario continua ad aspettarlo, — lo ha generato — e poi gli corre
incontro e lo abbraccia, non gli lascia
neppure finire la sua
confessione, — come
se gli coprisse la bocca — tanto è grande
l’amore e la gioia per
averlo ritrovato; e poi
va anche a chiamare
il figlio maggiore, che
è sdegnato e non
vuole far festa, il figlio che è rimasto
sempre a casa ma vi-
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GIOVANNI MARIA VIAN
direttore
Giuseppe Fiorentino
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Città del Vaticano
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vendo come un servo più che come
un figlio, e pure su di lui il padre si
china, lo invita ad entrare, cerca di
aprire il suo cuore all’amore, perché
nessuno rimanga escluso dalla festa
della misericordia. La misericordia è
una festa!
Di questo Dio misericordioso è
detto anche che è “lento all’ira”, letteralmente, “lungo di respiro”, cioè
con il respiro ampio della longanimità
e della capacità di sopportare. Dio sa
attendere, i suoi tempi non sono
quelli impazienti degli uomini; Egli
è come il saggio agricoltore che sa
aspettare, lascia tempo al buon seme
di crescere, malgrado la zizzania (cfr.
Mt 13, 24-30).
E infine, il Signore si proclama
“grande nell’amore e nella fedeltà”.
Com’è bella questa definizione di
Dio! Qui c’è tutto. Perché Dio è
grande e potente, ma questa grandezza e potenza si dispiegano
nell’amarci, noi così piccoli, così incapaci. La parola “amore”, qui utilizzata, indica l’affetto, la grazia, la bontà. Non è l’amore da telenovela... È
l’amore che fa il primo passo, che
non dipende dai meriti umani ma da
un’immensa gratuità. È la sollecitudine divina che niente può fermare,
neppure il peccato, perché sa andare
al di là del peccato, vincere il male e
perdonarlo.
Una “fedeltà” senza limiti: ecco
l’ultima parola della rivelazione di
Dio a Mosè. La fedeltà di Dio non
coordinatore
TIPO GRAFIA VATICANA EDITRICE
L’OSSERVATORE ROMANO
Redazione
via del Pellegrino, 00120 Città del Vaticano
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don Sergio Pellini S.D.B.
direttore generale
viene mai meno, perché il Signore è
il Custode che, come dice il Salmo,
non si addormenta ma vigila continuamente su di noi per portarci alla
vita:
«Non lascerà vacillare il tuo piede,
non si addormenterà il tuo custode.
Non si addormenterà, non prenderà sonno
il custode d’Israele.
[...]
Il Signore ti custodirà da ogni
male:
egli custodirà la tua vita.
Il Signore ti custodirà quando
esci e quando entri,
da ora e per sempre» (121, 3-4.78).
E questo Dio misericordioso è fedele nella sua misericordia e San
Paolo dice una cosa bella: se tu non
Gli sei fedele, Lui rimarrà fedele
perché non può rinnegare se stesso.
La fedeltà nella misericordia è proprio l’essere di Dio. E per questo
Dio è totalmente e sempre affidabile. Una presenza solida e stabile. È
questa la certezza della nostra fede.
E allora, in questo Giubileo della
Misericordia, affidiamoci totalmente
a Lui, e sperimentiamo la gioia di
essere amati da questo «Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e
grande nell’amore e nella fedeltà».
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numero 2, giovedì 14 gennaio 2016
L’OSSERVATORE ROMANO
pagina 3
L’invito alla preghiera per le vittime dell’attentato a Istanbul
Dio converta i cuori dei violenti
con una menzione speciale per il
gruppo del Brasile. Non stanchiamoci di vigilare sui nostri pensieri e
atteggiamenti per pregustare fin
d’ora il calore e lo splendore del volto di Dio misericordioso, che contempleremo in tutta la sua bellezza
nella vita eterna. Scenda, generosa,
la sua Benedizione su di voi e sulle
vostre famiglie!
«Il Signore dia pace eterna ai defunti,
conforto ai familiari, fermezza solidale
all’intera società, e converta i cuori
dei violenti»: con il pensiero rivolto
all’attentato avvenuto il giorno
precedente a Istanbul il Papa
ha concluso l’udienza generale,
invitando i fedeli presenti a pregare
per le vittime.
Saluto cordialmente i pellegrini di
lingua francese. In questo giorno
della memoria liturgica di Sant’Ilario, Vescovo di Poitiers, e di San Remigio, Vescovo di Reims, ricordo
particolarmente nella mia preghiera
la Francia, i suoi abitanti e i suoi governanti. Formulo voti che ciascuno
abbia la grazia di accogliere la misericordia di Dio e di portarla ai suoi
fratelli.
Saluto i pellegrini di lingua inglese presenti all’odierna Udienza, specialmente i gruppi provenienti da Irlanda, Finlandia e Stati Uniti
d’America. Con fervidi auguri che il
Giubileo della Misericordia sia per
voi e per le vostre famiglie un tempo
di grazia e di rinnovamento spirituale, invoco su voi tutti la gioia e pace
del Signore Gesù. Dio vi benedica!
Rivolgo un cordiale saluto a tutti i
pellegrini di lingua tedesca. L’Anno
Santo della Misericordia ci invita ad
Rivolgo un cordiale benvenuto ai
pellegrini di lingua araba, in particolare a quelli provenienti dalla Giordania, dalla Terra Santa e dal Medio
Oriente. La Misericordia è il nome
di Dio e il Suo modo di esprimere
se stesso e il Suo amore per gli uomini. Egli ci chiama a essere misericordiosi l’uno con l’altro per essere
veramente Suoi figli. Il Signore vi
benedica, vi colmi della Sua Misericordia e vi protegga dal maligno!
affidarci totalmente alla bontà del
Signore. Il buon Dio non si stanca
mai di perdonarci. Anche noi non
stanchiamoci di rivolgerci al Padre
misericordioso, in particolare nel sacramento della confessione. Dio vi
benedica tutti.
gruppi provenienti da Spagna e
America Latina: vedo che c’è una
folla argentino-uruguaiana là. Pieno
di fiducia nel Signore, affidiamoci a
Lui, per sperimentare la gioia di essere amati da Dio misericordioso,
clemente e compassionevole.
Saluto cordialmente i pellegrini di
lingua spagnola, in particolare i
Carissimi pellegrini di lingua portoghese, vi saluto cordialmente tutti,
Con i pennarelli e tanta voglia di vivere
C’è chi disegna accovacciato sulle
gradinate, chi seduto sulle
ginocchia della mamma. Altri si
azzardano oltre e, distesi
tranquillamente sul pavimento
vicino al presepe, sono intenti a
dipingere su grandi f0gli bianchi.
Altri ancora, sdraiati ai piedi dei
coetanei costretti sulla sedia a
rotelle, ritraggono a modo loro la
figura del Papa sulle pagine degli
album. È l’immagine offerta
dall’Aula Paolo VI durante
l’udienza generale di mercoledì
mattina, 13 gennaio. Protagonisti i
piccoli partecipanti al
pellegrinaggio organizzato
annualmente a Roma dal reparto
pediatrico della Fondazione Irccs
Istituto nazionale dei tumori di
Milano. Francesco ha incontrato
questi pazienti “speciali”, che grazie
alla loro vitalità e all’energia
dell’età lottano ogni giorno contro
il male che li ha colpiti. In tutto
140 tra bambini e ragazzi, genitori,
medici, paramedici e volontari che
li assistono. Tutti insieme per
portare al Pontefice un regalo che
dura tutto l’anno: il calendario 2016
da loro preparato. E, con
l’occasione, gli hanno consegnato
anche i ritratti eseguiti per
ingannare l’attesa prima dell’inizio
dell’udienza. Antonia Biasi — che
ha organizzato il pellegrinaggio
insieme con don Tullio Proserpio e
Maura Massimino, medico primario
— sottolinea come l’incontro con il
Pontefice stia molto a cuore a tutto
il reparto di pediatria. Tanto che,
non essendo sufficienti i posti del
pullman, molti genitori hanno fatto
il viaggio con il treno o con
l’automobile privata pur di essere
presenti.
Un altro ritratto del Papa, questa
volta destinato alla sede della
Conferenza episcopale spagnola,
verrà preparato da suor Isabel
Guerra Pérez-Penamaría, molto
nota nel Paese iberico per le sue
capacità artistiche. Proprio per
vedere di persona Francesco la
monaca cistercense è venuta
all’udienza generale.
Arriva invece dall’Asia il prezioso
tappeto — di tre metri per due e
cinquanta — interamente realizzato
a mano che è stato donato al
Pontefice. Si tratta di un manufatto
artigianale, con la scritta
«Misericordia e amore» riprodotto
in dieci lingue per ricordare l’anno
santo straordinario. È stato offerto
a Francesco da Ali Rahímí,
Wolfang Bandion, Carina
Pringruber e Andreas Pacher.
Una significativa opera d’arte è
stata poi presentata al Papa da un
artista israeliano, David Gerstein.
Si tratta di una scultura
tridimensionale, dipinta con una
particolare tecnica, che riproduce
un verso del salmo 22 in ebraico e
in spagnolo: «Il Signore è il mio
pastore, non manco di nulla».
Gerstein è un artista conosciuto a
livello internazionale: alcune delle
sue sculture sono esposte, oltre che
in Israele, anche a Singapore,
Bangkok e Seoul, e uno dei suoi
lavori si trova nel giardino del
Tempio maggiore di Roma. Altre
due opere artistiche — la statua
della Madonna della misericordia e
quella della Madonna del latte —
sono state portate nell’Aula in
occasione dell’udienza generale.
Al termine il Pontefice le ha
benedette e incoronate. Si tratta
delle immagini venerate
rispettivamente nella cattedrale
di Teggiano e nella parrocchia
di Sant’Anna e Sant’Antonio a Sala
Consilina, nel Salernitano.
Le hanno presentate i due parroci
don Giuseppe Puppo e don
Luciano La Peruta.
Saluto cordialmente i pellegrini
polacchi. Carissimi, Dio misericordioso è totalmente e sempre affidabile. È questa la certezza della nostra fede. In questo Giubileo della
Misericordia, affidiamoci a Lui e
sperimentiamo la gioia di essere
amati da questo “Dio misericordioso
e pietoso, lento all’ira e grande
nell’amore e nella fedeltà”. La Sua
benedizione vi accompagni sempre!
A tutti i pellegrini di lingua italiana presenti a questa prima Udienza
Generale del 2016 porgo un cordiale
augurio di speranza e di pace per il
nuovo anno.
Saluto in particolare
i sacerdoti della Diocesi di Savona-Noli, con
il Vescovo Monsignor
Vittorio Lupi; i fedeli
di Teggiano e quelli di
Sala Consilina; e le famiglie dell’Istituto Nazionale Tumori di Milano. A tutti formulo
l’auspicio che il passaggio dalla Porta Santa incoraggi a fare
esperienza delle opere
di misericordia corporali e spirituali.
Un pensiero speciale
rivolgo ai giovani, ai
malati e agli sposi novelli. In questo Anno
Santo vi invito ad accogliere e condividere
la tenerezza di Dio Padre. Cari giovani, siate
portatori dell’amore di
Cristo tra i vostri coetanei; cari ammalati,
trovate nella carezza di
Dio il sostegno nel dolore; e voi, cari sposi
novelli, siate testimoni della bellezza
del Sacramento del Matrimonio attraverso il vostro amore fedele.
Prima di concludere questo nostro
incontro, in cui abbiamo riflettuto
insieme sulla Misericordia di Dio, vi
invito a pregare per le vittime
dell’attentato avvenuto ieri a Istanbul. Che il Signore, il Misericordioso, dia pace eterna ai defunti, conforto ai familiari, fermezza solidale
all’intera società, e converta i cuori
dei violenti.
L’OSSERVATORE ROMANO
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giovedì 14 gennaio 2016, numero 2
Francesco battezza ventisei neonati
L’eredità più grande
La fede è «l’eredità più grande» che i figli ricevono
dai genitori: lo ha detto Papa Francesco all’omelia
della messa celebrata domenica 10 gennaio
nella cappella Sistina, dove ha battezzato ventisei
neonati. Tredici bambini e tredici bambine che hanno
fatto da originale “colonna sonora” al rito. Armati
di biberon e ciucciotti, i genitori — che lavorano
in dicasteri, uffici e organismi vaticani — hanno
avuto il loro bel daffare per tenere buoni i piccoli,
ai quali il Pontefice ha amministrato il sacramento
dell’iniziazione cristiana proprio nella festa liturgica
del Battesimo del Signore. Damiano Maria
Acquaroni, Ginevra Francesca Maria Bellaveglia,
Andrea Lucio Agostino Belisari, Matteo Bernardi,
Thomas Biagetti, Gabriele Bondatti, Marlene Pola
Caldiero, Rocco Cantore, Greta Cataldo, Arianna
Francesca Censoni, Ginevra Maria Corradini,
Anna Cordeschi, Edoardo De Leo, Emanuele
Della Monaca, Lara Gigli, Aurelio Samuel Ianniello,
Sofia Maria Guadalupe Lorenzo, Pier Giorgio
Massimilla, Arvid Jan Pavel Panchanka, Francesco
Biagio Rinaldi, Vittoria Severin, Irene Maria Sonni,
Chiara Tucci, Valentina Venanzi, Claudia Sonia
Venia e Leonardo Alberto Francesco Zamponi —
questi i nomi dei neonati — erano accompagnati
da padrini e madrine e da un piccolo gruppo
di parenti che hanno partecipato alla liturgia.
Con Francesco, che ha presieduto la messa all’antico
altare, hanno concelebrato gli arcivescovi Georg
Gänswein, prefetto della Casa Pontificia, Konrad
Krajewski, elemosiniere, e Giampiero Gloder,
presidente della Pontificia Accademia Ecclesiastica,
e il vescovo Fernando Vérgez Alzaga, segretario
generale del Governatorato.
Diretto da monsignor Guido Marini, maestro
delle Celebrazioni liturgiche pontificie, il rito è stato
animato dai canti della cappella Sistina guidata
da monsignor Massimo Palombella. Insieme
all’attestato del battesimo, al termine è stato
consegnato ai genitori un bassorilievo ovale dorato
raffigurante la Vergine e il Bambino, dono del Papa.
Ecco la sua omelia.
Quaranta giorni dopo la nascita,
Gesù è portato al Tempio. Maria
e Giuseppe lo portarono per presentarlo a Dio. Oggi, nella festa
del Battesimo del Signore, voi genitori portate i vostri figli a ricevere il Battesimo, a ricevere quello che avete chiesto all’inizio,
quando io vi ho fatto la prima
domanda: “La fede. Io voglio per
mio figlio la fede”. E così la fede
viene trasmessa da una generazione all’altra, come una catena, nel
corso dei tempi.
Questi bambini, queste bambine, passati gli anni, occuperanno
il vostro posto con un altro figlio
— i vostri nipotini — e chiederanno lo stesso: la fede. La fede che
il Battesimo ci dà. La fede che lo
Spirito Santo oggi porta nel cuore, nell’anima, nella vita di questi
vostri figli.
Voi avete chiesto la fede. La
Chiesa, quando vi consegnerà la
candela accesa, vi dirà di custodire la fede in questi bambini. E,
alla fine, non dimenticatevi che la
più grande eredità che voi potrete
dare ai vostri bambini è la fede.
Abbiate cura che non venga persa, di farla crescere e lasciarla come eredità.
Vi auguro questo oggi, in questo giorno gioioso per voi: vi auguro che siate capaci di far crescere questi bambini nella fede e
che la più grande eredità che loro
riceveranno da voi sia proprio la
fede.
E un avviso soltanto: quando
un bambino piange perché ha fame, alle mamme dico: se il tuo
bambino ha fame, dagli da mangiare qui, con tutta libertà.
Nelle acque del Giordano
di MAURIZIO GRONCHI
Ciò che impedisce all’insegnamento di
Gesù di lasciarsi ridurre a sapienza di vita, modello etico o ideologia è la sua
stessa esistenza, che dice più delle sue parole. Se Gesù non avesse compiuto il suo
cammino terreno con la morte e la risurrezione probabilmente non sarebbe stato
neppure ricordato. Dunque, a questo vertice punta tutta la sua vita, che pubblicamente s’inaugura con un gesto attestato
da tutta la tradizione evangelica: il battesimo ricevuto da Giovanni Battista sul
fiume Giordano (Marco, 1, 9-11; Matteo, 3,
13-17; Luca, 3, 21-22; Giovanni, 1, 31-34).
Per le comunità cristiane primitive non fu
certo semplice difendere questo episodio,
data l’impressione che poteva suscitare:
Gesù ha forse avuto bisogno di purificarsi dai peccati? In realtà, le ragioni del gesto e del suo racconto sono varie.
In primo luogo, si tratta della prima
grande decisione di Gesù, che passa dalla
stabilità all’itineranza, dal nascondimento
di Nazaret all’immersione nel comune destino del suo popolo, che attende il nuovo intervento di Dio. Tuttavia, l’iniziale
condivisione della prospettiva penitenziale del Battista riconosciuto come profeta
escatologico, da cui raccogliere l’annun-
cio (Matteo, 3, 15), sigillata dal rito battesimale, lascia spazio a un’inversione di
tendenza da parte di Gesù — l’agnello
che toglie i peccati del mondo (Giovanni,
1, 29).
Da quanto i vangeli narrano intorno alla predicazione e all’attività di Gesù, risalta la differente immagine di Dio rispetto a quella di Giovanni. Appare con chiarezza che il Dio di Gesù non sospende il
suo drastico giudizio né condiziona il suo
perdono in forza dell’osservanza della torah o del culto d’Israele. Dio è disposto a
un nuovo intervento di salvezza, che fin
da adesso è disponibile nella persona
stessa di Gesù — il Figlio mandato dal Signore della vigna, dopo tutti i suoi messaggeri (Marco, 12, 1-12).
Inoltre, per gli evangelisti è essenziale
raccontare l’investitura messianica che
Gesù riceve dal Padre e dallo Spirito nelle acque del Giordano. Nell’evento del
Giordano, infatti, vengono a intrecciarsi
tre azioni fondamentali: quella di Gesù,
che in umiltà si presenta solidale con
Israele; quella del Battista, che lo accoglie, lo riconosce e lo indica come colui
che è più grande; quella del Padre e dello
Spirito, che con voce ferma e leggera discesa dall’alto, lo consacrano “messia” inviato a Israele.
«Il battesimo di Cristo» (icona russa, 1430-1440)
L’OSSERVATORE ROMANO
numero 2, giovedì 14 gennaio 2016
pagina 5
Il giorno del battesimo «è la data
della nostra rinascita come figli
di Dio». Per questo il Papa
ha invitato i fedeli riuniti in piazza
San Pietro per l’Angelus di domenica
10 gennaio a festeggiare quel giorno
per «riaffermare la nostra adesione
a Gesù, con l’impegno di vivere
da cristiani».
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
In questa domenica dopo l’Epifania
celebriamo il Battesimo di Gesù, e
facciamo memoria grata del nostro
Battesimo. In tale contesto, stamattina ho battezzato 26 neonati: preghiamo per loro!
Il Vangelo ci presenta Gesù, nelle
acque del fiume Giordano, al centro
di una meravigliosa rivelazione divina. Scrive san Luca: «Mentre Gesù,
ricevuto anche lui il battesimo, stava
in preghiera, il cielo si aprì e discese
su di lui lo Spirito Santo in forma
corporea, come una colomba, e venne una voce dal cielo: “Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il
mio compiacimento”» (Lc 3, 21-22).
In questo modo Gesù viene consacrato e manifestato dal Padre come
il Messia salvatore e liberatore.
In questo evento — attestato da
tutti e quattro i Vangeli — è avvenuto il passaggio dal battesimo di Giovanni Battista, basato sul simbolo
dell’acqua, al Battesimo di Gesù «in
Spirito Santo e fuoco» (Lc 3, 16). Lo
Spirito Santo infatti nel Battesimo
cristiano è l’artefice principale: è Colui che brucia e distrugge il peccato
originale, restituendo al battezzato la
All’Angelus l’invito ai fedeli a ricordare la data del battesimo
Compito a casa
bellezza della grazia divina; è Colui
che ci libera dal dominio delle tenebre, cioè del peccato, e ci trasferisce
nel regno della luce, cioè dell’amore,
della verità e della pace: questo è il
regno della luce. Pensiamo a quale
dignità ci eleva il Battesimo! «Quale
grande amore ci ha dato il Padre per
essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente!» (1 Gv 3, 1), esclama
l’apostolo Giovanni. Tale realtà stupenda di essere figli di Dio compor-
ta la responsabilità di seguire Gesù,
il Servo obbediente, e riprodurre in
noi stessi i suoi lineamenti: cioè
mansuetudine, umiltà, tenerezza. E
questo non è facile, specialmente se
intorno a noi c’è tanta intolleranza,
superbia, durezza. Ma con la forza
che ci viene dallo Spirito Santo è
possibile!
Lo Spirito Santo, ricevuto per la
prima volta nel giorno del nostro
Il cardinale Koch parla del giubileo e della visita del Papa al tempio maggiore di Roma
Misericordia ecumenica
di NICOLA GORI
La visita papale al Tempio maggiore di Roma, domenica 17 gennaio, serve a ribadire un messaggio che sta
particolarmente a cuore a Francesco: «è assolutamente
impossibile essere cristiani e, allo stesso tempo, essere
antisemiti». Lo afferma il cardinale Kurt Koch, presidente del Pontificio Consiglio per la promozione
dell’unità dei cristiani, che in questa intervista al nostro
giornale traccia un bilancio dell’attività del dicastero
nell’anno appena trascorso e indica gli impegni futuri.
Proprio all’inizio del giubileo della misericordia Francesco
incontra la più antica comunità della diaspora occidentale.
Che significato ha questo gesto?
Mi sembra una bellissima continuità nella tradizione. Giovanni Paolo II è stato il primo Papa nella storia
a visitare la sinagoga di Roma il 13 aprile 1986. Dopo
di lui lo ha fatto Benedetto XVI il 17 gennaio 2010, nel
giorno che precede l’inizio della settimana di preghiera
per l’unità dei cristiani. In quella data in Italia, la
Conferenza episcopale ha indetto la celebrazione della
giornata dell’ebraismo. Sono molto contento che varie
Conferenze episcopali abbiano scelto di istituire questa
giornata. Il giorno non è causale, perché la sua collocazione alla vigilia dell’inizio della settimana di preghiera per l’unità dei cristiani vuole significare che
l’ebraismo è molto vicino al cristianesimo. Vorrei anche
ricordare i buoni rapporti di Papa Francesco con il
mondo ebraico, che risalgono ai suoi anni di episcopa-
to in Argentina. Ricordo particolarmente che il Papa
ha anche una grande amicizia con il rabbino Abraham
Skorka, che lo ha accompagnato nel suo viaggio in
Terra santa. La visita di Papa Francesco alla sinagoga
di Roma ha in sé un messaggio che il Pontefice ritiene
molto importante e che non si stanca mai di dire chiaramente: è assolutamente impossibile essere cristiani e,
allo stesso tempo, essere antisemiti. In questo tempo,
nel quale assistiamo a nuove ondate di antisemitismo
in Europa, mi sembra un messaggio ancora più importante. È certamente un segno molto bello che il Papa
voglia approfondire la relazione con la comunità ebraica di Roma, che ha vissuto la sua fede per molto tempo prima dell’arrivo del cristianesimo.
Un mese fa è stato pubblicato il documento della commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo «Perché i doni e
la chiamata di Dio sono irrevocabili». Da che cosa è nata
questa iniziativa?
Dopo cinquant’anni dalla promulgazione della Nostra aetate era importante compiere una riflessione ulteriore sul rapporto tra cristianesimo ed ebraismo. In primo luogo, era fondamentale esprimere gratitudine per
tutto ciò che è stato possibile realizzare in questo mezzo secolo. In secondo luogo, era opportuno preparare
una nuova fase del dialogo tra ebrei e cattolici su alcune tematiche teologiche da approfondire nel futuro.
CONTINUA A PAGINA 7
Battesimo, ci apre il cuore alla Verità, a tutta la Verità. Lo Spirito spinge la nostra vita sul sentiero impegnativo ma gioioso della carità e della solidarietà verso i nostri fratelli.
Lo Spirito ci dona la tenerezza del
perdono divino e ci pervade con la
forza invincibile della misericordia
del Padre. Non dimentichiamo che
lo Spirito Santo è una presenza viva
e vivificante in chi lo accoglie, prega
in noi e ci riempie di gioia spirituale.
Oggi, festa del Battesimo di Gesù,
pensiamo al giorno del nostro Battesimo. Tutti noi siamo stati battezzati, ringraziamo per questo dono. E
vi faccio una domanda: chi di voi
conosce la data del suo Battesimo?
Sicuramente non tutti. Perciò vi invito ad andare a cercare la data,
chiedendo per esempio ai vostri genitori, ai vostri nonni, ai vostri padrini, o andando in parrocchia. È
molto importante conoscerla, perché
è una data da festeggiare: è la data
della nostra rinascita come figli di
Dio. Per questo, compito a casa per
questa settimana: andare a cercare la
data del mio Battesimo. Festeggiare
quel giorno significa riaffermare la
nostra adesione a Gesù, con l’impegno di vivere da cristiani, membri
della Chiesa e di una umanità nuova, in cui tutti sono fratelli.
La Vergine Maria, prima discepola
del suo Figlio Gesù, ci aiuti a vivere
con gioia e fervore apostolico il nostro Battesimo, accogliendo ogni
giorno il dono dello Spirito Santo,
che ci fa figli di Dio.
Al termine della preghiera mariana
il Pontefice ha salutato i gruppi
presenti, assicurando una speciale
benedizione ai bambini battezzati
di recente e a quelli che «hanno
ricevuto da poco i Sacramenti
dell’iniziazione cristiana o che ad essi
si stanno preparando».
Cari fratelli e sorelle,
saluto tutti voi, fedeli di Roma e
pellegrini venuti dall’Italia e da diversi Paesi.
Saluto in particolare gli studenti
dell’Istituto Bachiller Diego Sánchez
de Talavera La Real, Spagna; il coro
degli Alpini di Martinengo con i familiari; il gruppo adolescenti di San
Bernardo in Lodi.
Come dicevo, in questa festa del
Battesimo di Gesù, secondo la tradizione ho battezzato numerosi bambini. Ora vorrei far giungere una
speciale benedizione a tutti i bambini che sono stati battezzati recentemente, ma anche ai giovani e agli
adulti che hanno ricevuto da poco i
Sacramenti dell’iniziazione cristiana
o che ad essi si stanno preparando.
La grazia di Cristo li accompagni
sempre!
E a tutti auguro una buona domenica. Non dimenticatevi il compito a
casa: cercare la data del mio Battesimo. E per favore, non dimenticatevi
anche di pregare per me. Buon
pranzo e arrivederci!
L’OSSERVATORE ROMANO
pagina 6
giovedì 14 gennaio 2016, numero 2
Messe a Santa Marta
Sorpresi da un abbraccio
Venerdì 8 gennaio
Peter Wever, «Abbraccio»
L’anno santo della misericordia ci ricorda che «Dio ama sempre per primo», senza condizioni, e ci accoglie
così come siamo per abbracciarci e
perdonarci come un padre. È soprattutto a coloro che si riconoscono
peccatori che Francesco ha ricordato
la certezza dell’amore di Dio, celebrando la messa venerdì mattina, 8
gennaio, nella cappella della Casa
Santa Marta.
«L’apostolo Giovanni — ha spiegato il Papa — continua a parlare ai
primi cristiani sui due comandamenti che Gesù ci ha insegnato: amare
Dio e amare il prossimo». Si legge,
infatti, nel passo della sua prima lettera (4, 7-10) proposto dalla liturgia:
«Carissimi, amiamoci gli uni gli al-
tri, perché l’amore è da Dio». E
«questa parola “amore” — ha fatto
notare Francesco — è una parola che
si usa tante volte e non si sa, quando si usa, cosa significhi esattamente». Che cosa è, dunque, l’amore? A
volte, ha detto il Pontefice, «pensiamo all’amore delle telenovele: no,
quello non sembra amore. O l’amore
può sembrare un entusiasmo per
una persona e poi si spegne».
La questione vera, dunque, è: «da
dove viene il vero amore?». Scrive
Giovanni: «Chiunque ama è stato
generato da Dio, perché Dio è amore». L’apostolo non dice «ogni amore è Dio». Dice invece: «Dio è amore». E, prosegue Giovanni, «Dio ci
ha amato tanto da mandare nel
mondo il suo Figlio unigenito, perché noi avessimo la vita per mezzo
di lui». Perciò, ha affermato Francesco, ecco «Dio che dà la sua vita in
Gesù, per dare a noi la vita». Dun-
que, ha proseguito, «l’amore è bello,
amare è bello e nel cielo ci sarà soltanto l’amore, la carità: lo dice Paolo». E se l’amore «è bello, si fa sempre forte e cresce nel dono della propria vita: cresce nel dare se stesso
agli altri».
Francesco ha riletto quindi un altro passo della lettera di Giovanni:
«In questo sta l’amore: non siamo
stati noi ad amare Dio, ma è lui che
ha amato noi». E ha rimarcato che
«Dio ci ha amato per primo; lui ci
ha dato la vita per amore, ha dato la
vita e suo Figlio per amore». Perciò
«quando noi troviamo Dio, c’è sempre una sorpresa: è lui che ci aspetta
per primo; è lui che trova noi».
Facendo riferimento al passo liturgico tratto dal Vangelo di Marco (6,
34-44), che racconta l’episodio della
moltiplicazione dei pani, il Papa ha
invitato a guardare Gesù. «Quella
gente — ha spiegato — lo seguiva per
sentirlo, perché parlava come uno
che ha autorità, non come gli scribi». Ma «lui guardava quella gente
e andava oltre. Proprio perché amava, dice il Vangelo, “ebbe compassione di loro”, che non è lo stesso di
avere pietà». La parola giusta è proprio «compassione: l’amore lo porta
a “patire con” loro, a coinvolgersi
per dare il perdono».
Quest’anno della
misericordia, ha affermato Francesco,
«un po’ è anche
questo: che noi
sappiamo che il Signore ci sta aspettando, ognuno di
noi» E ci aspetta
«per abbracciarci,
niente di più, per
nella vita della gente». E «il Signore
sta sempre lì, amando per primo: lui
ci aspetta, lui è la sorpresa».
È precisamente quello che accade,
ha ricordato il Papa, ad «Andrea
quando va da Pietro a dirgli: “Abbiamo trovato il Messia, vieni!”. Pietro va e Gesù lo guarda e gli dice:
Lotta con Dio
Martedì 12 gennaio
La forza della preghiera, vero motore della vita della Chiesa, è stata al
centro dell’omelia di Papa Francesco nella messa celebrata martedì 12
gennaio a Santa Marta.
La riflessione del Pontefice ha
preso spunto dalla lettura del brano
del primo libro di Samuele (1, 920), in cui sono citati tre protagonisti: Anna, il sacerdote Eli e il Signore. La donna, ha spiegato il Papa, «con la sua famiglia, con suo
marito, ogni anno, saliva al tempio
per adorare Dio». Anna era una
donna devota e pietosa, piena di fede, che però «portava su di sé una
croce che la faceva soffrire tanto:
era sterile. Lei voleva un figlio».
La descrizione della preghiera accorata di Anna mostra «come lei
quasi lotta col Signore», prolungando la sua implorazione con
«animo amareggiato, piangendo dirottamente». Una preghiera che si
risolve in un voto: «Signore, se vorrai considerare la miseria della tua
schiava e ricordarti di me; se non
dimenticherai la tua schiava e darai
alla tua schiava un figlio maschio,
io lo offrirò al Signore per tutti i
giorni della sua vita». Con grande
umiltà, ha spiegato Francesco, riconoscendosi «miserabile» e «schiava», ella ha fatto «il voto di offrire
il figlio».
Dunque Anna, ha sottolineato il
Papa, «ce l’ha messa tutta per arri-
vare a quello che voleva»: la sua insistenza salta agli occhi e viene notata dall’anziano sacerdote Eli, il
quale «stava osservando la sua bocca». Anna, infatti, «pregava in cuor
suo», muovendo soltanto le labbra
senza far udire la propria voce. È
un’immagine intensa quella proposta dalla Scrittura, perché riflette
«il coraggio di una donna di fede
che con il suo dolore, con le sue lacrime, chiede al Signore la grazia».
A tale riguardo, il Pontefice ha
commentato che nella Chiesa ci sono «tante donne brave così», che
«vanno a pregare come se fosse una
scommessa», e ha ricordato, per
CONTINUA A PAGINA 7
“Tu sei Simone? Sarai Pietro”. Lo
aspettava con una missione. Lo aveva amato prima».
Lo stesso avviene «quando Zaccheo, che era piccolo, sale sull’albero
per poter vedere meglio Gesù». Il
quale «passa, alza gli occhi e dice:
“Scendi Zaccheo, voglio andare a cena a casa tua”. E Zaccheo, che voleva incontrare Gesù, si accorse che
Gesù lo aspettava».
Ancora, Francesco ha rammentato
la storia di Natanaele che «va a vedere colui che gli dicono sia il messia,
un po’ scettico». A lui Gesù dice:
«Io ti ho visto sotto l’albero di fico».
Dunque, «sempre Dio ama per primo». Lo ricorda anche la parabola
del figliol prodigo: «Quando il figlio,
che aveva speso tutti i soldi dell’eredità del padre in una vita di vizi, torna a casa, si accorge che il papà lo
stava aspettando. Dio sempre per primo ci aspetta. Prima di noi, sempre.
E quando l’altro figlio non vuole venire alla festa, perché non capisce
l’atteggiamento del papà, va il babbo
a cercarlo. E così fa Dio con noi: ci
ama per primo, sempre».
Così, ha rilanciato il Papa, «possiamo vedere nel Vangelo come ama
Dio: quando noi abbiamo qualcosa
nel cuore e vogliamo chiedere perdono al Signore, è lui che ci aspetta
Quando il mondo dorme
nella comodità e nell’egoismo,
la missione cristiana
è di aiutarlo a svegliarsi
(@Pontifex_it)
dire: “Figlio, figlia, ti amo. Ho
lasciato che crocefiggessero mio Figlio per te; questo è il prezzo del
mio amore; questo è il regalo di
amore”».
Il Papa ha suggerito di pensare
sempre a questa verità: «Il Signore
mi aspetta, il Signore vuole che io
apra la porta del mio cuore, perché
lui è lì che mi aspetta per entrare».
Senza condizioni.
Certo, qualcuno potrebbe dire:
«Ma, padre, no, no, io avrei voglia,
ma ho tante cose brutte dentro!».
Chiara, in proposito, la risposta di
Francesco: «È meglio! Meglio! Perché lui ti aspetta, così come tu sei,
non come ti dicono che “si deve fare”. Si deve essere come sei tu. Ti
ama così, per abbracciarti, baciarti,
perdonarti».
Ecco, quindi, l’esortazione conclusiva del Papa, che ha invitato ad andare senza indugi dal Signore e dire:
«Ma tu sai Signore che io ti amo».
Oppure, se proprio «non me la sento, di dirla così: “Tu sai Signore che
io vorrei amarti, ma sono tanto peccatore, tanto peccatrice”». Con la
certezza che lui farà come il padre
«col figliol prodigo che ha speso
tutti i soldi nei vizi. Non ti lascerà
finire il tuo discorso, con un abbraccio ti farà tacere: l’abbraccio
dell’amore di Dio».
L’OSSERVATORE ROMANO
numero 2, giovedì 14 gennaio 2016
pagina 7
Messe a Santa Marta
DA PAGINA 6
esempio, la figura di santa Monica,
la madre di Agostino, «che con le
sue lacrime è riuscita ad avere la grazia della conversione di suo figlio».
Il Papa si è quindi soffermato ad
analizzare il personaggio di Eli, non
cattivo, ma «un povero uomo», rivelando tra l’altro di provare per lui
«una certa simpatia», perché «anche
in me — ha confidato — trovo difetti
che mi fanno avvicinare a lui e capirlo bene».
Questo anziano sacerdote «era caduto nel tepore, aveva perso la devozione» e «non aveva la forza di fermare i suoi due figli», che erano sacerdoti «ma delinquenti», loro sì,
davvero cattivi «che sfruttavano la
gente». Eli è, insomma, «un povero
uomo senza forza» e, per questo, incapace di «capire il cuore di questa
donna». Così vedendo Anna muovere le labbra, angosciata, pensa: «Ma
questa ha bevuto troppo!». E l’episodio custodisce un insegnamento per
tutti noi: «con quanta facilità — ha
detto Francesco — noi giudichiamo le
persone, con quanta facilità non abbiamo il rispetto di dire: “Ma cosa
avrà nel suo cuore? Non lo so, ma io
non dico nulla”». E ha aggiunto:
«Quando manca la pietà nel cuore,
sempre si pensa male, si giudica male, forse per giustificare noi stessi».
Il fraintendimento di Eli è tale
che «alla fine lui le disse: “Fino a
quando rimarrai ubriaca?”». E qui
emerge ancora l’umiltà di Anna, che
non risponde: «Ma tu che sei vecchio, che ne sai?». Al contrario, la
donna dice: «No, mio signore». E
pur sapendo tutti cosa facessero i
suoi figli, non rimprovera Eli rinfacciandogli: «I tuoi figli cosa fanno?».
Invece gli spiega: «Io sono una donna affranta e non ho bevuto né vino
né altra bevanda inebriante, ma sto
solo sfogando il mio cuore davanti
al Signore. Non considerare la tua
schiava una donna perversa, poiché
finora mi ha fatto parlare l’eccesso
del mio dolore e della mia angoscia».
In queste parole Papa Francesco
ha individuato «la preghiera col dolore e con l’angoscia» di Anna, «che
affida quel dolore e angoscia al Signore». E in ciò, ha aggiunto il
Pontefice, Anna ci ricorda Cristo: infatti «questa preghiera l’ha conosciuta Gesù nell’Orto degli Ulivi, quando era tanta l’angoscia e tanto il dolore che gli è venuto quel sudore di
sangue, e non ha rimproverato il Padre: “Padre, se tu vuoi toglimi questo, ma sia fatta la tua volontà”». Al
contrario, anche «Gesù ha risposto
sulla stessa strada di questa donna:
la mitezza». Da qui la constatazione
di come a volte «noi preghiamo,
chiediamo al Signore, ma tante volte
non sappiamo arrivare proprio a
quella lotta col Signore, alle lacrime,
a chiedere, chiedere la grazia».
Francesco ha citato in proposito
un episodio accaduto nel santuario
di Luján, a Buenos Aires, dove c’era
una famiglia con una figlia di nove
anni molto malata. «Dopo settimane
di cura — ha raccontato Francesco —
non era riuscita a uscire da quella
malattia, era peggiorata e i medici,
verso le 6 di sera», avevano detto ai
genitori che le restavano poche ore
di vita. Allora «il papà, un uomo
umile, un lavoratore, subito è uscito
dall’ospedale e se ne è andato al
santuario della Madonna, a Luján»,
distante settanta chilometri. Essendo
«Il servo Manuel in preghiera davanti all’immagine della Vergine di Luján»
«arrivato verso le 10 di sera, era tutto chiuso, e si è aggrappato alla grata della porta e ha pregato la Madonna e ha lottato nella preghiera.
Questo — ha precisato — è un fatto
veramente accaduto, nel tempo che
io ero lì. E così è rimasto fino alle 5
del mattino».
Quell’uomo «pregava, piangeva
per sua figlia, lottava con Dio per
intercessione della Madonna per sua
figlia. Poi è tornato, è arrivato in
ospedale verso le 7, le 8, è andato a
cercare sua moglie e lei piangeva e
questo signore pensò che la ragazza
fosse morta e lei diceva: “Non capisco, non capisco... Sono venuti i medici e ci hanno detto che non capiscono loro cosa è successo”. E la
bambina tornò a casa».
In pratica — ha osservato il Papa
— con «quella fede, quella preghiera
davanti a Dio, convinto che lui è capace di tutto, perché è il Signore», il
padre di Buenos Aires ricorda la
donna del testo biblico. La quale
non solo ha ottenuto «il miracolo di
avere un figlio dopo un anno e poi,
dice la Bibbia, che ne avrà tanti altri», ma è anche riuscita nel «miracolo di svegliare un po’ l’anima tiepida di quel sacerdote». E quando
Anna «spiega a quel sacerdote — che
aveva perso tutto, tutto, tutta la spiritualità, tutta la pietà — perché
piangeva, lui che l’aveva chiamata
“ubriaca”, le dice: “Vai in pace e il
Dio di Israele ti conceda quello che
gli hai chiesto”. Ha fatto uscire da
sotto la cenere il piccolo fuoco sacerdotale che era nelle braci».
Ecco allora l’insegnamento conclusivo. «La preghiera — ha detto
Francesco — fa miracoli». E li fa anche a quei «cristiani, siano fedeli laici, siano sacerdoti, vescovi, che hanno perso la devozione».
Inoltre — ha spiegato — «la preghiera dei fedeli cambia la Chiesa:
non siamo noi, i Papi, i vescovi, i sacerdoti, le suore a portare avanti la
Chiesa, sono i santi! E i santi sono
questi», come la donna del brano biblico: «I santi sono quelli che hanno
il coraggio di credere che Dio è il
Signore e che può fare tutto». Da
qui l’esortazione a invocare il Padre
affinché «ci dia la grazia della fiducia nella preghiera, di pregare con
coraggio e anche di svegliare la pietà, quando l’abbiamo persa, e andare
avanti col popolo di Dio all’incontro
con lui».
Intervista al cardinale Kurt Koch
DA PAGINA 5
Qual è la natura del documento?
È chiaro che non si tratta di un testo di dialogo. Per esserlo doveva essere stato preparato insieme con gli ebrei. Certamente, prima della pubblicazione del testo lo abbiamo consegnato a degli
esperti ebrei, ma rimane un documento cattolico.
È rivolto quindi ai fedeli, affinché conoscano l’esistenza del dialogo con l’ebraismo e le radici ebraiche del cristianesimo, potendo così partecipare a
questo dialogo. Per questo, non è un testo dottrinale o magisteriale, ma teologico che serve per
approfondire alcuni temi.
Che riscontro avete avuto da parte del mondo ebraico?
Sono molto grato che anche alcuni rabbini ritengano arrivato il tempo per discutere di queste
tematiche. Dopo la pubblicazione del documento
sono arrivati inviti per un rinnovato dialogo. Il
mondo ebraico, infatti, ha ben accolto il testo. Allo stesso tempo, quasi contemporaneamente, alcuni rabbini di tutto il mondo hanno pubblicato
una dichiarazione sul dialogo con i cristiani. Noi
abbiamo accolto questo testo con grande gioia e
gratitudine.
Qual è stato il filo conduttore del dialogo con gli
ebrei nell’anno appena trascorso?
Lo scorso anno con la commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo abbiamo ricordato in
particolare il cinquantesimo anniversario della
promulgazione della dichiarazione conciliare No-
stra aetate e abbiamo celebrato questa ricorrenza
in varie parti del mondo: Brasile, Stati Uniti
d’America, Svizzera, Germania, e infine, nel dicembre scorso, in Israele.
Può tracciare un bilancio complessivo dell’attività del
dicastero per l’anno passato?
Nel 2015 abbiamo soprattutto proseguito i dialoghi in corso e visitato differenti Chiese e comunità ecclesiali. E Papa Francesco ha ricevuto molti
rappresentanti di altre Chiese in udienza. Abbiamo anche avuto la gioia del dono dell’enciclica
Laudato si’, che è stata presentata a Roma dal metropolita ortodosso John Zizioulas. È stato senza
dubbio un evento ecumenico. Non dimentichiamo poi che lo scorso anno Papa Francesco ha stabilito di celebrare anche nella Chiesa cattolica la
giornata di salvaguardia del creato il 1° settembre,
in coincidenza con quella promossa dal Patriarcato di Costantinopoli.
Qual è la valenza ecumenica del giubileo della misericordia?
Il fulcro centrale dell’anno santo a livello ecumenico è la celebrazione dei secondi vespri del 25
gennaio, nella basilica di San Paolo fuori le Mura,
a conclusione della settimana di preghiera per
l’unità dei cristiani. Infatti, la tematica della misericordia di Dio è essenzialmente ecumenica, perché
l’ecumenismo non è solo un dialogo su questioni
difficili e controverse, ma deve concentrarsi anche
sulle tematiche centrali e comuni della nostra fede.
E la misericordia di Dio è il cuore della nostra fe-
de. Ho saputo di diocesi che hanno inserito alcune
celebrazioni ecumeniche dell’anno santo nel programma. Queste iniziative mi sembrano molto importanti, perché è necessario approfondire il tema
della misericordia anche in ambito ecumenico.
Quali sono le scadenze più importanti che attendono
il dicastero in questo 2016?
Dal 30 gennaio al 6 febbraio al Cairo si svolgerà la plenaria della commissione mista internazionale con tutte le Chiese orientali ortodosse sul tema dei sacramenti dell’iniziazione cristiana, soprattutto il battesimo. È una tematica non facile,
perché alcune Chiese orientali ortodosse hanno
ancora la prassi del ribattesimo. Questo è un problema, perché il battesimo e il suo reciproco riconoscimento sono il fondamento dell’ecumenismo
e se una Chiesa segue ancora questa prassi è un
punto difficile su cui dobbiamo discutere.
Spero che nel prossimo autunno possiamo avere una plenaria anche della commissione mista internazionale con tutte le Chiese ortodosse per
continuare il dialogo sul rapporto tra sinodalità e
primato. Non è assolutamente facile la discussione su questo tema. Ci sarà inoltre un momento
per ricordare il cinquantesimo anniversario della
prima visita di un arcivescovo di Canterbury a
Roma dopo la riforma, ovvero l’incontro dell’arcivescovo Michael Ramsey con Paolo VI, avvenuto
il 23 marzo 1966, e per ricordare anche l’istituzione di una rappresentanza personale presso un
centro anglicano a Roma. Infine, per quest’anno
dobbiamo e vogliamo programmare una plenaria
del nostro Pontificio Consiglio.
pagina 8
L’OSSERVATORE ROMANO
giovedì 14 gennaio 2016, numero 2
Discrezione
e civiltà
di ALBERTO FABIO AMBROSIO
In molte società attuali, pronunciare
la semplice frase «io sono cristiano»
è un reato punibile con la morte.
Questa persecuzione è talmente diffusa, da essere definita da Papa
Francesco una «terza guerra mondiale “a rate”, una sorta di genocidio». Il Santo Padre si è riferito soprattutto ai tanti che oggi stanno
morendo per la fede. Ma ci sono
molti altri cristiani che vivono nel
pericolo costante. Secondo stime affidabili, più di 200 milioni di cristiani in 60 Paesi nel mondo subiscono
una qualche forma di limitazione alla loro fede.
La persecuzione, oggi, avviene su
larga scala; e quanti la perpetrano
provengono da ogni parte del globo. Traggono la loro motivazione da
una vasta gamma di ideologie, dal
comunismo materialistico all’islam
radicale. Accusano i cristiani di reati
come la sedizione e la blasfemia. Ci
sono persecuzioni in Iraq, Siria, Pakistan, India, Cina, Nigeria, Sudan,
Corea del Nord e in molti altri Paesi. Avvengono in piena vista. Talvolta i persecutori postano sfacciatamente sui media sociali riprese
dell’esecuzione di cristiani.
Tuttavia, la cosa a stento viene
commentata nei principali organi
d’informazione. Passa quasi inosservata ai diplomatici e ai capi di Sta-
Nel mondo sono 200 milioni i cristiani perseguitati
Che cosa facciamo
per loro?
ve iniziare con la fine del silenzio.
Intendo questo libro come un atto
di solidarietà con quanti oggi stanno
soffrendo per la fede cristiana. La
solidarietà è il principio di unità in
una società, che si estende oltre il
mero interesse proprio. In nessun
luogo questo principio è più fondamentale e più reale che nella Chiesa
di Gesù Cristo. Poiché condivido la
fede dei martiri, siamo membri di
un unico corpo. Quando loro soffrono, anch’io soffro. Se la mia ma-
Martiri
Pubblichiamo, in una nostra traduzione dall’inglese, la
prefazione del cardinale arcivescovo di Washington al volume
To the Martyrs. A Reflection on the Supreme Christian Witness
(Steubenville, Ohio, Emmaus Road, 2015, pagine 135, dollari
22,95). Il libro è introdotto dalle parole di Carl A. Anderson,
cavaliere supremo dei Cavalieri di Colombo, organizzazione da
tempo impegnata nell’opera di sostegno alle Chiese
perseguitate e di sensibilizzazione dell’opinione pubblica sulle
drammatiche condizioni dei credenti, in particolare i cristiani,
che in numerose regioni del pianeta e quasi nel silenzio
generale soffrono per il semplice fatto di testimoniare
pubblicamente la propria fede religiosa. Per Anderson questa
moltitudine di perseguitati rappresenta «il popolo delle
beatitudini» di cui parla Gesù nel Vangelo (Matteo, 5, 3, 12).
to. Di fatto, è trattata come una responsabilità politica. I martiri cristiani, si è detto, sono troppo religiosi per suscitare l’interesse della sinistra americana e troppo estranei
per suscitare l’interesse della destra.
E così i martiri vengono abbandonati al loro destino, lasciati a soffrire
soli. Riconosciamo la verità contenuta nell’osservazione del poeta W.
H. Auden: «anche il tremendo martirio deve avere il suo corso/ in
qualche modo in un angolo, in
qualche squallido posto».
Papa Francesco ha invitato tutti i
cristiani a ribellarsi, a fare sentire la
propria voce e a esigere la fine del
genocidio. La fine del genocidio de-
a commemorazione degli avvenimenti di Parigi, quelli
del gennaio e del novembre
2015, si è realizzata in numerose
iniziative culturali e sociali, non
tutte conosciute dal grande pubblico. È il caso, nella stessa giornata, di due eventi apparentemente lontani l’uno dall’altro, discreti
per numero di persone coinvolte,
ma di grande valore simbolico.
Da un lato, il pomeriggio del 9
gennaio, alla Sorbona, nella sala
degli Atti, alla presenza di un
pubblico scelto, il professore di filosofia della normale di Lione,
Bruno Pinchard, ha inaugurato ufficialmente la società dantesca di
Francia (Société dantesque de
France). È una prima assoluta in
questo Paese, anche se per un breve periodo è stata operante una
società mediterranea dedicata a
Dante. Questa nuova società dantesca, il cui alto patronato scientifico è garantito dalla fama internazionale dello storico Marc Fumaroli e del filosofo Jean-Luc Marion, si è data come obiettivo non
solo la diffusione nell’area francese
dell’autore della Commedia, ma anche di proporre Dante come un
ponte tra il pensiero occidentale
ed orientale, e più propriamente
musulmano. Che i membri fondatori, qualche decina in tutto, fossero coscienti dell’atto simbolico
rappresentato dall’inaugurazione
ufficiale di questa società dantesca
— la fondazione vera e propria è
avvenuta a Firenze nel mese di dicembre scorso — conferma quanto
anche un poeta, in questo caso
proprio Dante, possa giocare un
ruolo di primo piano. L’intervento
inaugurale ha sottolineato infatti
quanto il poeta fiorentino possa
diventare una figura di primo piano nella distensione tra oriente ed
occidente, in un’epoca in cui tutto
sembra dire il contrario. Basterebbe rileggere il libro di Miguel
Asín Palacios, recentemente ripubblicato in Italia, Dante e l’islam
(Milano, Luni Editore, 2015) per
rendersi conto quanto Dante sia
stato l’uomo in cui la circolazione
di idee e di saperi non aveva frontiere.
Lo stesso giorno, a distanza di
qualche ora, nel teatro Adyar —
che nel XIX secolo era il teatro dei
teosofi — parecchie decine di sufi
di Francia si sono dati appuntamento per celebrare il Mawlid,
cioè la nascita del profeta
dell’islam, Muhammad. Quest’anno l’evento è caduto negli stessi
giorni della celebrazione della nascita di Gesù, e per questo i sufi
hanno rinviato l’iniziativa a un
momento più consono per tutti.
La sala gremita di musulmani —
poiché i sufi restano tali — di tutte
le provenienze, riuniti per l’ascolto
della musica spirituale delle diverse confraternite presenti. È stato
un tripudio di musica sufi, della
L
di D ONALD WILLIAM WUERL
no destra fosse ferita, sofferente o
sanguinante, cercherei subito aiuto.
Con questo libro cerco attenzione e
aiuto per i miei fratelli cristiani che
sono nel profondo bisogno.
Il martirio, come vedremo, si è rivelato una costante nella vita della
Chiesa. Il concilio Vaticano II ha
confermato che lo sarà sempre.
«Avendo Gesù, Figlio di Dio, manifestato la sua carità dando per noi la
vita, nessuno ha più grande amore
di colui che dà la vita per lui e per i
fratelli. Già fin dai primi tempi
quindi, alcuni cristiani sono stati
chiamati, e altri lo saranno sempre,
a rendere questa massima testimonianza d’amore davanti agli uomini,
e specialmente davanti ai persecutori. Perciò il martirio, col quale il discepolo è reso simile al suo maestro
che liberamente accetta la morte per
la salute del mondo, e col quale diventa simile a lui nella effusione del
sangue, è stimato dalla Chiesa come
dono insigne e suprema prova di carità. Ché se a pochi è concesso, tutti
però devono essere pronti a
confessare Cristo davanti agli uomini e a seguirlo sulla via della croce
durante le persecuzioni, che non
mancano mai alla Chiesa» (Lumen
gentium, 42).
Il martirio sarà anche una costante, e forse è inevitabile. Ma ciò non
significa che dobbiamo permettere
che avvenga senza conseguenze e
passi inosservato. Ogni ingiustizia
deve spingerci a pronunciarci con
voce più forte e con maggiore efficacia a favore della giustizia. Di recente, nel mio Paese, gli Stati Uniti, abbiamo subìto qualche battuta d’arresto nell’ambito della libertà religiosa, e anche queste vanno affrontate.
Godiamo però ancora di una libertà
relativamente abbondante di rendere
culto come vogliamo. È una grande
benedizione poter celebrare l’Eucaristia, venerare la Trinità, proclamare
il Cristo veramente Risorto e poi lasciare le nostre chiese nella pace e
nella sicurezza. E intanto molti — e
con molti intendo molte migliaia —
di nostri correligionari non possono
partecipare alla messa senza temere
che una delle automobili parcheggiate nei pressi possa esplodere.
Molti non possono riunirsi la domenica senza domandarsi se sarà quello
il giorno in cui i miliziani circonderanno la chiesa e la incendieranno.
Sapendo ciò che sappiamo, non
possiamo stare tranquilli. Dobbiamo
impegnarci a vivere in solidarietà
con quei cristiani che attualmente
soffrono. Stanno donando la loro vita per noi. Il loro sangue è il seme
della Chiesa dei nostri figli. Noi che
cosa facciamo per loro? Possano la
stesura di questo libro e la vostra
lettura essere un inizio.
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numero 2, giovedì 14 gennaio 2016
L’OSSERVATORE ROMANO
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Nel discorso al corpo diplomatico il Papa si sofferma sulla grave emergenza dei profughi e dei rifugiati
La persona al centro
Ed esorta l’Europa a non smarrire i suoi principi di umanità, rispetto e solidarietà
Nel riflettere «sulla grave emergenza
migratoria che stiamo affrontando,
per discernerne le cause, prospettare
delle soluzioni, vincere l’inevitabile
paura che accompagna un fenomeno
così massiccio e imponente», Papa
Francesco ha ribadito che bisogna
«mettere la persona umana e la sua
dignità al cuore di ogni risposta
umanitaria». Occasione è stato
il discorso al corpo diplomatico
accreditato presso la Santa Sede,
riunito lunedì mattina, 11 gennaio,
nella Sala Regia per la tradizionale
udienza di inizio anno. L’incontro,
come di consueto, ha offerto
al Pontefice l’occasione per un’ampia
panoramica della situazione
internazionale.
Eccellenze, Signore e Signori,
Vi porgo un cordiale benvenuto a
questo appuntamento annuale, che
mi offre l’opportunità di presentarVi
gli auguri per il nuovo anno, consentendomi di riflettere insieme con
Voi sulla situazione di questo nostro
mondo, benedetto e amato da Dio,
eppure travagliato e afflitto da tanti
mali. Ringrazio il nuovo Decano del
Corpo Diplomatico, Sua Eccellenza
il Signor Armindo Fernandes do
Espírito Santo Vieira, Ambasciatore
di Angola, per le amabili parole che
mi ha indirizzato a nome dell’intero
Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede, mentre desidero ricordare in modo speciale — a quasi
un mese dalla scomparsa — i compianti Ambasciatori di Cuba, Rodney Alejandro López Clemente, e
della Liberia, Rudolf P. von Ballmoos.
L’occasione mi è gradita anche
per rivolgere un particolare pensiero
a quanti partecipano per la prima
volta a questo incontro, rilevando
con soddisfazione che, nel corso
dell’ultimo anno, il numero di Ambasciatori residenti a Roma si è ulteriormente accresciuto. Si tratta di un
significativo segno dell’attenzione
con la quale la Comunità internazionale segue l’attività diplomatica della Santa Sede. Ne sono una ulteriore
prova gli Accordi internazionali sottoscritti o ratificati nel corso dell’anno appena concluso. In particolare,
desidero qui citare le intese specifiche in materia fiscale firmate con
l’Italia e gli Stati Uniti d’America,
che testimoniano l’accresciuto impegno della Santa Sede in favore di
una più ampia trasparenza nelle
questioni economiche. Non meno
importanti sono gli accordi di carattere generale, volti a regolare aspetti
essenziali della vita e dell’attività
della Chiesa nei vari Paesi, quale
l’intesa siglata a Díli con la Repubblica Democratica di Timor-Leste.
Parimenti, desidero richiamare lo
scambio degli Strumenti di Ratifica
dell’Accordo con il Ciad sullo statuto giuridico della Chiesa cattolica
nel Paese, come pure l’Accordo firmato e ratificato con la Palestina. Si
tratta di due accordi che, unitamente
al Memorandum d’Intesa tra la Segreteria di Stato e il Ministero degli
Affari Esteri del Kuwait, dimostrano, tra l’altro, come la convivenza
pacifica fra appartenenti a religioni
diverse sia possibile, laddove la libertà religiosa è riconosciuta e l’effettiva possibilità di collaborare
all’edificazione del bene comune, nel
reciproco rispetto dell’identità culturale di ciascuno, è garantita.
D’altra parte, ogni esperienza religiosa autenticamente vissuta non
può che promuovere la pace. Ce lo
ricorda il Natale che abbiamo da poco celebrato e nel quale abbiamo
contemplato la nascita di un bambino inerme, «chiamato: Consigliere
ammirabile, Dio potente, Padre per
sempre, Principe della pace» (cfr. Is
9, 5). Il mistero dell’Incarnazione ci
mostra il vero volto di Dio, per il
quale potenza non significa forza e
distruzione, bensì amore; giustizia
non significa vendetta, bensì misericordia. È in questa prospettiva che
ho inteso indire il Giubileo straordinario della Misericordia, inaugurato
eccezionalmente a Bangui nel corso
del mio viaggio apostolico in Kenya,
Uganda e Repubblica Centroafricana. In un Paese lungamente provato
da fame, povertà e conflitti, dove la
violenza fratricida degli ultimi anni
ha lasciato ferite profonde negli animi, lacerando la comunità nazionale
e generando miseria materiale e morale, l’apertura della Porta Santa della Cattedrale di Bangui ha voluto
essere un segno di incoraggiamento
ad alzare lo sguardo, a riprendere il
cammino e a ritrovare le ragioni del
dialogo. Laddove il nome di Dio è
stato abusato per commettere ingiustizia, ho voluto ribadire, insieme
con la comunità musulmana della
Repubblica Centroafricana, che «chi
dice di credere in Dio dev’essere an-
che un uomo o una donna di pace»
(Incontro con la comunità musulmana,
Bangui, 30 novembre 2015), e dunque di misericordia, giacché non si
può mai uccidere nel nome di Dio.
Solo una forma ideologica e deviata
di religione può pensare di rendere
giustizia nel nome dell’O nnipotente,
deliberatamente massacrando persone inermi, come è avvenuto nei sanguinari attentati terroristici dei mesi
scorsi in Africa, Europa e Medio
O riente.
La misericordia è stato come il “filo conduttore” che ha guidato i miei
viaggi apostolici già nel corso
dell’anno passato. Mi riferisco anzitutto alla visita a Sarajevo, città profondamente ferita dalla guerra nei
Balcani e capitale di un Paese, la
Bosnia ed Erzegovina, che riveste
uno speciale significato per l’Europa
e per il mondo intero. Quale crocevia di culture, nazioni e religioni si
sta sforzando, con esiti positivi, di
costruire sempre nuovi ponti, di valorizzare ciò che unisce e di guardare alle differenze come opportunità
di crescita nel rispetto di tutti. Ciò è
possibile mediante un dialogo paziente e fiducioso, che sa far propri i
valori della cultura di ciascuno e accogliere il bene proveniente dalle
esperienze altrui (cfr. Incontro con le
Autorità, Sarajevo, 6 giugno 2015).
Il mio pensiero va poi al viaggio
in Bolivia, Ecuador e Paraguay, dove
ho incontrato popoli che non si arrendono dinanzi alle difficoltà e affrontano con coraggio, determinazione e spirito di fraternità le numerose
sfide che li affliggono, a partire dalla
diffusa povertà e dalle disuguaglianze sociali. Nel corso del viaggio a
Cuba e negli Stati Uniti d’America
ho potuto abbracciare due Paesi che
sono stati lungamente divisi e che
hanno deciso di scrivere una nuova
pagina della storia, intraprendendo
un cammino di ravvicinamento e di
riconciliazione.
A Filadelfia, in occasione dell’Incontro Mondiale delle Famiglie, come pure nel corso del viaggio in Sri
Lanka e nelle Filippine e con il recente Sinodo dei Vescovi, ho richiamato l’importanza della famiglia,
che è la prima è più importante
scuola di misericordia, nella quale si
impara a scoprire il volto amorevole
di Dio e dove la nostra umanità cresce e si sviluppa. Purtroppo, conosciamo le numerose sfide che la famiglia deve affrontare in questo tempo, in cui è «minacciata dai crescenti tentativi da parte di alcuni per ridefinire la stessa istituzione del matrimonio mediante il relativismo, la
cultura dell’effimero, una mancanza
di apertura alla vita» (Incontro con le
famiglie, Manila, 16 gennaio 2015).
C’è oggi una diffusa paura dinanzi
alla definitività che la famiglia esige
e ne fanno le spese soprattutto i più
giovani, spesso fragili e disorientati,
e gli anziani che finiscono per essere
dimenticati e abbandonati. Al contrario, «dalla fraternità vissuta in famiglia, nasce (...) la solidarietà nella
società» (Incontro con la società civile,
Quito, 7 luglio 2015), che ci porta ad
essere responsabili l’uno dell’altro.
Ciò è possibile solo se nelle nostre
case, così come nelle nostre società,
non lasciamo sedimentare le fatiche
e i risentimenti, ma diamo posto al
dialogo, che è il migliore antidoto
all’individualismo così ampiamente
diffuso nella cultura del nostro tempo.
Cari Ambasciatori,
Uno spirito individualista è terreno fertile per il maturare di quel
senso di indifferenza verso il prossimo, che porta a trattarlo come mero
oggetto di compravendita, che spinge a disinteressarsi dell’umanità degli altri e finisce per rendere le persone pavide e ciniche. Non sono forse questi i sentimenti che spesso abbiamo di fronte ai poveri, agli emarginati, agli ultimi della società? E
quanti ultimi abbiamo nelle nostre
società! Tra questi, penso soprattutto
ai migranti, con il loro carico di difficoltà e sofferenze, che affrontano
ogni giorno nella ricerca, talvolta disperata, di un luogo ove vivere in
pace e con dignità.
Vorrei perciò quest’oggi soffermarmi a riflettere con Voi sulla grave
emergenza migratoria che stiamo affrontando, per discernerne le cause,
prospettare delle soluzioni, vincere
l’inevitabile paura che accompagna
un fenomeno così massiccio e imponente, che nel corso del 2015 ha riguardato soprattutto l’Europa, ma
anche diverse regioni dell’Asia e il
nord e il centro America.
«Non aver paura e non spaventarti, perché il Signore, tuo Dio, è con
te, dovunque tu vada» (Gs 1, 9). È
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L’OSSERVATORE ROMANO
numero 2, giovedì 14 gennaio 2016
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la promessa che Dio fa a Giosuè e che
mostra quanto il Signore accompagni
ogni persona, soprattutto chi è in una
situazione di fragilità come quella di
chi cerca rifugio in un Paese straniero.
Invero, tutta la Bibbia ci narra la storia
di un’umanità in cammino, perché l’essere in movimento è connaturale all’uomo. La sua storia è fatta di tante migrazioni, talvolta maturate come consapevolezza del diritto ad una libera scelta, sovente dettate da circostanze esteriori. Dall’esilio dal paradiso terrestre
fino ad Abramo in marcia verso la terra
promessa; dal racconto dell’Esodo alla
deportazione in Babilonia, la Sacra
Scrittura narra fatiche e dolori, desideri
e speranze, che sono simili a quelli delle centinaia di migliaia di persone in
marcia ai nostri giorni, con la stessa determinazione di Mosè di raggiungere
una terra nella quale scorra “latte e
miele” (cfr. Es 3, 17), dove poter vivere
liberi e in pace.
Per non perdere
i principi di umanità
E così, oggi come allora, udiamo il
grido di Rachele che piange i suoi figli
perché non sono più (cfr. Ger 31, 15; Mt
2, 18). È la voce delle migliaia di persone che piangono in fuga da guerre orribili, da persecuzioni e violazioni dei diritti umani, o da instabilità politica o
sociale, che rendono spesso impossibile
la vita in patria. È il grido di quanti sono costretti a fuggire per evitare le barbarie indicibili praticate verso persone
Il miracolo del pane
di san Francesco di Paola
Davanti all’intensificarsi di numerosi
conflitti in tutti i continenti «il
mondo possa comprendere che c’è
sempre qualcosa da condividere»:
richiama un famoso miracolo di san
Francesco di Paola l’immagine scelta
dal decano del corpo diplomatico
accreditato presso la Santa Sede, per
esprimere l’auspicio che «tutti
possano trovare il pane» da
condividere «per soddisfare i bisogni
degli uomini».
Nel discorso rivolto a Papa Francesco
all’inizio dell’udienza, l’ambasciatore
dell’Angola, Armindo Fernandes do
Espírito Santo Vieira, ha infatti
ricordato che in questo 2016 ricorre il
sesto centenario della nascita del
santo calabrese (27 marzo 1416),
sottolineando come nella biografia del
fondatore dell’ordine dei minimi si
legga che un giorno mentre era in
cammino, sentendosi dire «da alcuni
lavoratori poveri che essi non avevano
nulla da condividere, li invitò a
controllare nelle loro bisacce, dove,
stupefatti, trovarono del pane fresco».
Parlando per la prima volta al
Pontefice come decano, il diplomatico
in francese ha preso spunto dalle
«innumerevoli situazioni tragiche che
si verificano in un mondo desideroso
di pace» per richiamare l’importanza
del perdono, così come l’ha
sottolineata lo stesso Pontefice
convocando il giubileo straordinario
della misericordia. In tal senso, ha
aggiunto, i messaggi papali diventano
«una luce che cerca di illuminare le
coscienze più ostinatamente
addormentate».
Ripercorrendo poi le principali tappe
dell’attività di Francesco nel 2015,
l’ambasciatore ha rimarcato in
particolare il Sinodo dei vescovi sulla
famiglia, «in cui la Chiesa ha
confermato l’amore che ella riserva a
tutte le persone, nelle diverse
situazioni che esse vivono durante
l’esistenza». Il diplomatico si è
soffermato quindi sui viaggi apostolici
e per ogni continente ha individuato
un tema guida: in Asia, l’importanza
della tolleranza e della cooperazione
tra le nazioni, e al contempo la
speranza che la Chiesa ripone nei
giovani; in Europa, il rilancio del
dialogo e della convivenza pacifica; in
America, la conoscenza della storia e
delle radici come fonti di ispirazione
per la costruzione della pace. E in
tale contesto, ha fatto notare, «grazie
al prezioso contributo riconosciuto di
vostra Santità, è stato possibile
assistere al ristabilimento delle
relazioni, interrotte per decenni, tra
due nazioni»: ovvero Cuba e Stati
Uniti. Quanto all’Africa, «aprendo a
Bangui, la prima porta santa del
giubileo», Francesco ha «coronato un
cammino di speranza. Ha mostrato al
mondo che il cuore della Chiesa è
ovunque ed è vicino soprattutto a
quanti soffrono di più».
Infine il decano ha accennato alle
sfide ambientali trattate nella Laudato
si’, alla dimensione planetaria assunta
dal terrorismo e all’intolleranza che
diventa persecuzione religiosa. In
proposito ha rimarcato l’attualità della
dichiarazione conciliare Nostra aetate e
ha citato Paolo VI, il quale affermava
che la Chiesa esorta gli uomini a
vivere insieme il loro comune destino.
Tuttavia, ha constatato l’ambasciatore,
la violenza sta ora colpendo intere
nazioni, con particolari conseguenze
per le categorie più vulnerabili della
popolazione: donne, bambini, giovani
e anziani. Inoltre, peggiora
drasticamente la povertà, che è anche
un fattore decisivo nell’attuale crisi
migratoria. Da qui gli auspici di
condivisione tra i vari Paesi, con la
speranza conclusiva che il giubileo
possa realizzare in pieno il suo spirito
di perdono e di grazia per tutti.
indifese, come i bambini e i disabili, o
il martirio per la sola appartenenza religiosa.
Come allora, udiamo la voce di Giacobbe che dice ai suoi figli «Andate
laggiù e comprate [il grano] per noi,
perché possiamo conservarci in vita e
non morire» (Gen 42, 2). È la voce di
quanti fuggono dalla miseria estrema,
per l’impossibilità di sfamare la famiglia o di accedere alle cure mediche e
all’istruzione, dal degrado senza prospettive di alcun progresso, o anche a
causa dei cambiamenti climatici e di
condizioni climatiche estreme. Purtroppo, è noto come la fame sia ancora una
delle piaghe più gravi del nostro mondo, con milioni di bambini che ogni
anno muoiono a causa di essa. Duole,
tuttavia, constatare che spesso questi
migranti non rientrano nei sistemi internazionali di protezione in base agli
accordi internazionali.
Come non vedere in tutto ciò il frutto di quella “cultura dello scarto” che
mette in pericolo la persona umana, sacrificando uomini e donne agli idoli del
profitto e del consumo? È grave assuefarci a queste situazioni di povertà e di
bisogno, ai drammi di tante persone e
farle diventare “normalità”. Le persone
non sono più sentite come un valore
primario da rispettare e tutelare, specie
se povere o disabili, se “non servono
ancora” — come i nascituri —, o “non
servono più” — come gli anziani. Siamo
L’apertura della porta santa a Bangui il 29 novembre
diventati insensibili ad ogni forma di
spreco, a partire da quello alimentare,
che è tra i più deprecabili, quando ci
sono molte persone e famiglie che soffrono fame e malnutrizione (cfr. Udienza generale, 5 giugno 2013).
La Santa Sede auspica che il Primo
Vertice Umanitario Mondiale, convocato nel maggio prossimo dalle Nazioni
Unite, possa riuscire, nel triste quadro
odierno di conflitti e disastri, nel suo
intento di mettere la persona umana e
la sua dignità al cuore di ogni risposta
umanitaria. Occorre un impegno comune che rovesci decisamente la cultura
dello scarto e dell’offesa della vita umana, affinché nessuno si senta trascurato
o dimenticato e altre vite non vengano
sacrificate per la mancanza di risorse e,
soprattutto, di volontà politica.
Purtroppo, oggi come allora, sentiamo la voce di Giuda che suggerisce di
vendere il proprio fratello (cfr. Gen 37,
26-27). È l’arroganza dei potenti che
strumentalizzano i deboli, riducendoli
ad oggetti per fini egoistici o per calcoli strategici e politici. Laddove è impossibile una migrazione regolare, i migranti sono spesso costretti a scegliere
di rivolgersi a chi pratica la tratta o il
contrabbando di esseri umani, pur essendo in gran parte coscienti del pericolo di perdere durante il viaggio i beni, la dignità e perfino la vita. In questa prospettiva, rinnovo ancora l’appello a fermare il traffico di persone, che
mercifica gli esseri umani, specialmente
i più deboli e indifesi. E rimarranno
sempre indelebilmente impresse nelle
nostre menti e nei nostri cuori le immagini dei bambini morti in mare, vittime
della spregiudicatezza degli uomini e
dell’inclemenza della natura. Chi poi
sopravvive e approda ad un Paese che
lo accoglie porta indelebilmente le cicatrici profonde di queste esperienze, oltre a quelle legate agli orrori che sempre accompagnano guerre e violenze.
Come allora, anche oggi si ode l’Angelo ripetere: «Alzati, prendi con te il
bambino e sua madre, fuggi in Egitto e
resta là finché non ti avvertirò» (Mt 2,
13). È la voce che sentono i molti migranti che non lascerebbero mai il proprio Paese se non vi fossero costretti.
Tra questi vi sono numerosi cristiani
che sempre più massicciamente hanno
abbandonato nel corso degli ultimi anni le proprie terre, che pure hanno abitato fin dalle origini del cristianesimo.
Infine, anche oggi ascoltiamo la voce
del salmista che ripete: «Sui fiumi di
Babilonia, là sedevamo piangendo al ricordo di Sion» (Sal 136 [137], 1). È il
pianto di quanti farebbero volentieri ritorno nei propri Paesi, se vi trovassero
idonee condizioni di sicurezza e di sussistenza. Anche qui il mio pensiero va
ai cristiani del Medio Oriente desiderosi di contribuire, come cittadini a pieno
titolo, al benessere spirituale e materiale delle rispettive Nazioni.
Gran parte delle cause delle migrazioni si potevano affrontare già da tempo. Si sarebbero così potute prevenire
tante sciagure o, almeno, mitigarne le
conseguenze più crudeli. Anche oggi, e
prima che sia troppo tardi, molto si potrebbe fare per fermare le tragedie e costruire la pace. Ciò significherebbe però rimettere in discussione abitudini e
prassi consolidate, a partire dalle problematiche connesse al commercio degli armamenti, al problema dell’approvvigionamento di materie prime e di
energia, agli investimenti, alle politiche
finanziarie e di sostegno allo sviluppo,
fino alla grave piaga della corruzione.
Siamo consapevoli poi che, sul tema
della migrazione, occorra stabilire progetti a medio e lungo termine che vadano oltre la risposta di emergenza. Essi dovrebbero da un lato aiutare effettivamente l’integrazione dei migranti nei
Paesi di accoglienza e, nel contempo,
favorire lo sviluppo dei Paesi di provenienza con politiche solidali, che però
non sottomettano gli aiuti a strategie e
pratiche ideologicamente estranee o
contrarie alle culture dei popoli cui sono indirizzate.
Senza dimenticare altre situazioni
drammatiche, tra le quali penso particolarmente alla frontiera fra Messico e
Stati Uniti d’America, che lambirò recandomi a Ciudad Juárez il mese prossimo, vorrei dedicare un pensiero speciale all’Europa. Infatti, nel corso
dell’ultimo anno essa è stata interessata
da un imponente flusso di profughi —
molti dei quali hanno trovato la morte
nel tentativo di raggiungerla —, che
non ha precedenti nella sua storia recente, nemmeno al termine della seconda guerra mondiale. Molti migranti
provenienti dall’Asia e dall’Africa, vedono nell’Europa un punto di riferimento per principi come l’uguaglianza
di fronte al diritto e valori inscritti nella
natura stessa di ogni uomo, quali l’inviolabilità della dignità e dell’uguaglianza di ogni persona, l’amore al
prossimo senza distinzione di origine e
di appartenenza, la libertà di coscienza
e la solidarietà verso i propri simili.
Tuttavia, i massicci sbarchi sulle coste del Vecchio Continente sembrano
far vacillare il sistema di accoglienza,
costruito faticosamente sulle ceneri del
secondo conflitto mondiale e che costituisce ancora un faro di umanità cui riferirsi. Di fronte all’imponenza dei flussi e agli inevitabili problemi connessi,
sono sorti non pochi interrogativi sulle
reali possibilità di ricezione e di adattamento delle persone, sulla modifica
della compagine culturale e sociale dei
Paesi di accoglienza, come pure sul ridisegnarsi di alcuni equilibri geo-politici regionali. Altrettanto rilevanti sono i
timori per la sicurezza, esasperati oltremodo dalla dilagante minaccia del terrorismo internazionale. L’attuale ondata
migratoria sembra minare le basi di
quello “spirito umanistico” che l’Europa da sempre ama e difende (cfr. Discorso al Parlamento Europeo, Strasburgo, 25 novembre 2014). Tuttavia, non ci
si può permettere di perdere i valori e i
principi di umanità, di rispetto per la
dignità di ogni persona, di sussidiarietà
e di solidarietà reciproca, quantunque
essi possano costituire, in alcuni momenti della storia, un fardello difficile
da portare. Desidero, dunque, ribadire
il mio convincimento che l’Europa, aiutata dal suo grande patrimonio culturale e religioso, abbia gli strumenti per
difendere la centralità della persona
umana e per trovare il giusto equilibrio
fra il duplice dovere morale di tutelare
i diritti dei propri cittadini e quello di
garantire l’assistenza e l’accoglienza dei
migranti (cfr. ibid.).
In pari tempo, sento la necessità di
esprimere gratitudine per tutte le iniziative prese per favorire una dignitosa accoglienza delle persone, quali, fra gli
altri, il Fondo Migranti e Rifugiati della Banca di Sviluppo del Consiglio
d’Europa, nonché per l’impegno di
quei Paesi che hanno mostrato un generoso atteggiamento di condivisione.
Mi riferisco anzitutto alle Nazioni vicine alla Siria, che hanno dato risposte
immediate di assistenza e di accoglienza, soprattutto il Libano, dove i rifugiati costituiscono un quarto della popolazione complessiva, e la Giordania, che
non ha chiuso le frontiere nonostante
ospitasse già centinaia di migliaia di rifugiati. Parimenti non bisogna dimenticare gli sforzi di altri Paesi impegnati
in prima linea, tra i quali specialmente
la Turchia e la Grecia. Una particolare
riconoscenza desidero esprimere all’Italia, il cui impegno deciso ha salvato
molte vite nel Mediterraneo e che tuttora si fa carico sul suo territorio di un
ingente numero di rifugiati. Auspico
che il tradizionale senso di ospitalità e
solidarietà che contraddistingue il popolo italiano non venga affievolito dalle inevitabili difficoltà del momento,
ma, alla luce della sua tradizione plurimillenaria, sia capace di accogliere ed
integrare il contributo sociale, economico e culturale che i migranti possono
offrire.
È importante che le Nazioni in prima linea nell’affrontare l’attuale emergenza non siano lasciate sole, ed è altrettanto indispensabile avviare un dialogo franco e rispettoso tra tutti i Paesi
coinvolti nel problema — di provenienza, di transito o di accoglienza — affinché, con una maggiore audacia creativa,
si ricerchino soluzioni nuove e sostenibili. Non si possono, infatti, pensare
nell’attuale congiuntura soluzioni perseguite in modo individualistico dai
singoli Stati, poiché le conseguenze
delle scelte di ciascuno ricadono inevitabilmente sull’intera Comunità internazionale. È noto, infatti, che le migrazioni costituiranno un elemento fondante del futuro del mondo più di
quanto non l’abbiano fatto finora e che
le risposte potranno essere frutto solo
di un lavoro comune, che sia rispettoso
della dignità umana e dei diritti delle
persone. L’Agenda di Sviluppo adottata nel settembre scorso dalle Nazioni
Unite per i prossimi 15 anni, che affronta molti dei problemi che spingono
alla migrazione, come pure altri documenti della Comunità internazionale
per gestire la questione migratoria, potranno trovare un’applicazione coerente
alle aspettative se sapranno rimettere la
persona al centro delle decisioni politiche a tutti i livelli, vedendo l’umanità
come una sola famiglia e gli uomini coCONTINUA A PAGINA 12
L’OSSERVATORE ROMANO
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giovedì 14 gennaio 2016, numero 2
La grave emergenza dei profughi e dei rifugiati
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me fratelli, nel rispetto delle reciproche differenze e convinzioni di coscienza.
Nell’affrontare la questione migratoria non si potranno tralasciare, infatti, i risvolti culturali connessi, a
partire da quelli legati all’appartenenza religiosa. L’estremismo e il
fondamentalismo trovano un terreno
fertile non solo in una strumentalizzazione della religione per fini di
potere, ma anche nel vuoto di ideali
e nella perdita d’identità — anche religiosa —, che drammaticamente connota il cosiddetto Occidente. Da tale
vuoto nasce la paura che spinge a
vedere l’altro come un pericolo ed
un nemico, a chiudersi in sé stessi,
arroccandosi su posizioni preconcette. Il fenomeno migratorio pone,
dunque, un serio interrogativo culturale, al quale non ci si può esimere
dal rispondere. L’accoglienza può
essere dunque un’occasione propizia
per una nuova comprensione e apertura di orizzonte, sia per chi è accolto, il quale ha il dovere di rispettare
i valori, le tradizioni e le leggi della
comunità che lo ospita, sia per quest’ultima, chiamata a valorizzare
quanto ogni immigrato può offrire a
vantaggio di tutta la comunità. In
tale ambito, la Santa Sede rinnova il
proprio impegno in campo ecumenico ed interreligioso per instaurare un
dialogo sincero e leale che, valorizzando le particolarità e l’identità
propria di ciascuno, favorisca una
convivenza armoniosa fra tutte le
componenti sociali.
Distinti Membri del Corpo Diplomatico,
Il 2015 ha visto la conclusione di
importanti intese internazionali, le
quali fanno ben sperare per il futuro. Penso anzitutto al cosiddetto Accordo sul nucleare iraniano, che auspico contribuisca a favorire un clima di distensione nella Regione, come pure al raggiungimento dell’atteso accordo sul clima nel corso della
Conferenza di Parigi. Un’intesa significativa — quest’ultima — che rappresenta un importante risultato per
l’intera Comunità internazionale e
che mette in luce una forte presa di
coscienza collettiva circa la grave responsabilità che ciascuno, individui
e Nazioni, ha di custodire il creato,
promuovendo una «cultura della cura
che impregni tutta la società» (Enc.
Laudato si’, 231). È ora fondamentale
che gli impegni assunti non rappresentino solo un buon proposito, ma
costituiscano per tutti gli Stati un effettivo obbligo a porre in essere le
azioni necessarie per salvaguardare
la nostra amata Terra, a beneficio
dell’intera umanità, soprattutto delle
generazioni future.
Da parte sua, l’anno da poco iniziato si preannuncia carico di sfide,
e non poche tensioni si sono già affacciate all’orizzonte. Penso soprattutto ai gravi contrasti sorti nella regione del Golfo Persico, come pure
al preoccupante esperimento militare
condotto nella penisola coreana. Au-
spico che le contrapposizioni lascino
spazio alla voce della pace e alla
buona volontà di cercare intese. In
tale prospettiva, rilevo con soddisfazione come non manchino gesti significativi e particolarmente incoraggianti. Mi riferisco in particolare al
clima di pacifica convivenza nel quale si sono svolte le recenti elezioni
nella Repubblica Centroafricana e
che costituisce un segno positivo
della volontà di proseguire il cammino intrapreso verso una piena riconciliazione nazionale. Penso, inoltre,
alle nuove iniziative avviate a Cipro
per sanare una divisione di lunga
data e agli sforzi intrapresi dal popolo colombiano per superare i conflitti del passato e conseguire la pace
da tempo agognata. Tutti guardiamo
Nel 2015 firmati quattro accordi
Sono 180 gli Stati che attualmente intrattengono relazioni diplomatiche con la Santa Sede. A essi vanno aggiunti l’Unione europea e il Sovrano Militare Ordine di Malta, come anche la missione permanente
dello Stato di Palestina. Per quanto riguarda le organizzazioni internazionali, lo scorso 4 giugno la Santa Sede è diventata Osservatore presso la Comunità caraibica (Caricom). Le cancellerie di ambasciata con
sede a Roma, incluse quelle dell’Unione europea e del Sovrano Militare Ordine di Malta, sono 86: nel 2015 si sono aggiunte le ambasciate
di Belize, di Burkina Faso e di Guinea Equatoriale. Hanno sede a Roma anche la missione dello Stato di Palestina e gli uffici della Lega degli Stati arabi, dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni e
dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati.
Nel corso del 2015 sono stati firmati quattro accordi: il 1° aprile, la
Convenzione tra la Santa Sede e il Governo della Repubblica Italiana
in materia fiscale; il 10 giugno, l’Accordo tra la Santa Sede, anche a
nome e per conto dello Stato della Città del Vaticano, e gli Stati Uniti
d’America per favorire l’osservanza a livello internazionale degli obblighi fiscali e attuare la Foreign Account Tax Compliance Act (Fatca); il
26 giugno, l’Accordo globale tra la Santa Sede e lo Stato di Palestina;
e il 14 agosto, l’Accordo tra la Santa Sede e la Repubblica Democratica di Timor-Leste sullo statuto giuridico della Chiesa cattolica. Il 22
giugno 2015 è stato ratificato l’Accordo tra la Santa Sede e la Repubblica del Ciad sullo statuto giuridico della Chiesa cattolica, che era
stato firmato il 6 novembre 2013. Il 10 settembre, poi, è stato siglato
un memorandum d’intesa tra la Segreteria di Stato e il Ministero degli
Affari esteri dello Stato del Kuwait sulla conduzione delle consultazioni bilaterali.
poi con speranza gli importanti passi intrapresi dalla Comunità internazionale per raggiungere una soluzione politica e diplomatica della crisi
in Siria, che ponga fine alle sofferenze, durate troppo a lungo, della popolazione. Parimenti, sono incoraggianti i segnali provenienti dalla Libia, che fanno sperare in un rinnovato impegno per far cessare le violenze e ritrovare l’unità del Paese.
D’altra parte, appare sempre più evidente che solamente un’azione politica comune e concordata potrà contribuire ad arginare il dilagare
dell’estremismo e del fondamentalismo, con i suoi risvolti di matrice
terroristica, che mietono innumerevoli vittime tanto in Siria e in Libia,
come in altri Paesi, quali Iraq e Yemen.
Quest’Anno Santo della Misericordia sia anche l’occasione di dialogo e riconciliazione volto all’edificazione del bene comune in Burundi,
nella Repubblica Democratica del
Congo e in Sud Sudan. Soprattutto
sia un tempo propizio per porre definitivamente termine al conflitto
nelle regioni orientali dell’Ucraina.
È di fondamentale importanza il sostegno che la Comunità internazionale, i singoli Stati e le organizzazioni umanitarie potranno offrire al
Paese sotto molteplici punti di vista,
affinché esso superi l’attuale crisi.
La sfida che più di ogni altra ci
attende è però quella di vincere l’indifferenza per costruire insieme la
pace (cfr. Vinci l’indifferenza e conquista la pace, Messaggio per la XLIX
Giornata Mondiale della Pace, 8 dicembre 2015), la quale rimane un bene da perseguire sempre. Purtroppo
tra le tante parti del nostro amato
mondo che la bramano ardentemente, vi è la Terra che Dio ha prediletto e scelto per mostrare a tutti il volto della sua misericordia. Il mio augurio è che questo nuovo anno possa sanare le profonde ferite che separano Israeliani e Palestinesi e permettere la pacifica convivenza di due
popoli che — ne sono certo — dal
profondo del cuore null’altro chiedono che pace!
Eccellenze, Signore e Signori,
A livello diplomatico, la Santa Sede non smetterà mai di lavorare perché la voce della pace possa essere
udita fino agli estremi confini della
terra. Rinnovo pertanto la piena disponibilità della Segreteria di Stato
a collaborare con Voi nel favorire un
dialogo costante tra la Sede Apostolica e i Paesi che rappresentate a beneficio dell’intera Comunità internazionale, con l’intima certezza che
quest’anno giubilare potrà essere
l’occasione propizia perché la fredda
indifferenza di tanti cuori sia vinta
dal calore della misericordia, dono
prezioso di Dio, che trasforma il timore in amore e ci rende artefici di
pace. Con questi sentimenti rinnovo
a ciascuno di Voi, alle Vostre famiglie, ai Vostri Paesi i più fervidi auguri di un anno pieno di benedizioni. Grazie.
L’OSSERVATORE ROMANO
numero 2, giovedì 14 gennaio 2016
pagina 13
Teofilo Patini
«Buon samaritano», Pesaro
di PIETRO PAROLIN
hi è alla ricerca di rivelazioni
scorrendo queste pagine rimarrà forse un po’ deluso:
non è un libro in cui Papa Francesco
racconta inedite curiosità o particolari aneddoti su se stesso. Non si
tratta neppure di un’intervista a tutto campo su questioni di attualità
che riguardano la vita della Chiesa e
del mondo. Quello che presentiamo
oggi è invece un libro con il quale il
Papa vuole farci entrare, quasi prendendoci per mano, nel grande e
confortante mistero della misericordia di Dio. Un mistero lontano dai
nostri calcoli umani, eppure così necessario e atteso da noi pellegrini
smarriti in questi tempi di sfide e di
prove.
«La misericordia è vera», dice il
Papa rispondendo a una domanda
dell’intervistatore a proposito del
rapporto tra misericordia e dottrina.
La misericordia, aggiunge Francesco,
è «la carta d’identità del nostro
Dio»: un’immagine che ci aiuta a
comprendere la reale portata di questa verità cristiana. La carta d’identità, infatti, ci definisce, descrive i dati
personali, basilari e oggettivi, da sapere su ciascuno di noi.
Il volume, che si legge agevolmente, ha una caratteristica che è
C
La misericordia secondo Bergoglio
Carta d’identità
peculiare del suo principale autore,
cioè il Papa: è infatti un libro che
apre delle porte, che le vuole mantenere aperte e intende indicare delle
possibilità, che desidera far almeno
balenare, se non brillare, il dono
gratuito dell’infinita misericordia di
Dio, senza la quale «il mondo non
esisterebbe», come ebbe a dire una
vecchietta – un’abuela – all’allora
monsignor Bergoglio, da poco vescovo ausiliare di Buenos Aires.
Un incontro inusuale
«Solo a questo Papa poteva venire
in mente di organizzare la
presentazione di questo libro con
un cardinale veneto, un carcerato
cinese e un comico toscano!».
Roberto Benigni, come di
consueto, è stato un fiume in
piena, profondendo sprazzi di
esilarante comicità e accenti di
spiritualità nel presentare il volume
Il nome di Dio è Misericordia (Città
del Vaticano - Milano, Libreria
Editrice Vaticana - Piemme, 2016,
pagine 113, euro 15) che raccoglie
una conversazione tra Papa
Francesco e il giornalista Andrea
Tornielli.
L’opera, lanciata in contemporanea
in ottantasei Paesi del mondo, è
stata consegnata l’11 gennaio al
Pontefice e, il giorno successivo,
presentata all’Istituto patristico
Augustinianum in un incontro
moderato dal direttore della Sala
stampa della Santa Sede, padre
Federico Lombardi. Oltre all’attore
e all’autore sono intervenuti il
cardinale Pietro Parolin, segretario
di Stato (del cui discorso
pubblichiamo ampi stralci), il
direttore della Lev, don Giuseppe
Costa, e il giovane cinese Zhang
Agostino Jianquing, detenuto del
carcere di Padoval, che ha portato
una personale testimonianza
raccontando la storia della sua
conversione e la sua esperienza del
perdono di Dio. E proprio sulla
centralità della misericordia
convergono le risposte del Papa
presentate nel libro. «Per me
rappresenta il messaggio più
importante di Gesù» dice
Bergoglio, sottolineando che nel
suo pensiero «la centralità della
misericordia è cresciuta pian piano
(...) come conseguenza
dell’esperienza di confessore, delle
tante storie positive e belle che ho
conosciuto». Non esiste solo la
giustizia divina, anche quella
terrena va perseguita. I reati vanno
puniti, ma «dopo avere pagato il
suo debito con la giustizia» chi ha
sbagliato deve trovare un lavoro «e
non restare ai margini della
società». Anche per questo il
Pontefice sottolinea di avere «usato
una croce pastorale di legno
d’ulivo realizzata da un laboratorio
di falegnameria che fa parte di un
progetto d’inserimento di detenuti
ed ex tossicodipendenti». Un gesto
che vuole indicare il ruolo sociale
della misericordia perché «il
mancato perdono rischia di
alimentare una spirale di conflitti
senza fine».
È questo un episodio che il Santo
Padre ha raccontato nel suo primo
Angelus, domenica 17 marzo 2013,
che ha ripetuto di recente in
un’omelia a Santa Marta e che nel
libro descrive con l’aggiunta di qualche particolare in più.
Papa Francesco non ha, in queste
pagine, lo scopo di «definire», delimitare, mettere paletti o affrontare la
casistica, scendendo nei singoli
aspetti particolari riguardanti le scelte di vita delle persone. Permettetemi qui il richiamo a una risposta data nel dialogo con i giornalisti sul
volo da Bangui a Roma lo scorso 30
novembre, sollecitato da una domanda sui modi di combattere l’aids
che il Papa ha paragonato, a prescindere dalle intenzioni di chi gliela
poneva, a quelle che spesso i Dottori
della legge facevano a Gesù per
metterlo in difficoltà: «È lecito guarire di sabato?».
A me pare che lo scopo di queste
pagine non sia, appunto, di scendere
nei singoli casi, ma piuttosto di allargare lo sguardo, di accendere nel
cuore di tutti il desiderio dell’incontro con l’amore infinito del Signore,
il desiderio di sperimentare nelle nostre vite il dono divino, lontano dalle nostre logiche umane, e tuttavia
necessario per sostenerci, incoraggiarci, risollevarci e renderci capaci
di ricominciare sempre.
Proprio perché lascia aperte delle
porte e cerca di far intravvedere la
misericordia di Dio, è un libro che
in alcune pagine può commuovere.
Commuove perché Papa Francesco,
rievocando e calando nella sua esperienza i passi evangelici, le citazioni
dei Padri della Chiesa o alcune parole dei suoi predecessori, presenta il volto
del Dio di misericordia, il Padre che tocca
i cuori e che cerca instancabilmente di raggiungerci per donarci il
suo amore e il suo perdono. Egli cerca ogni
spiraglio, spiega il Papa, ogni fessura anche
minima del nostro cuore, per raggiungerci
con la sua grazia.
Nella prefazione l’intervistatore
racconta
quello che definisce un
«piccolo
retroscena»
molto
significativo.
Scrive Tornielli: «Si
stava parlando della
difficoltà a riconoscersi
peccatori, e nella prima
stesura che avevo preparato, Francesco affermava: “La medicina
c’è, la guarigione c’è,
se soltanto muoviamo
un piccolo passo verso
D io”. Dopo aver riletto
il testo, (il Papa) mi ha
Il segretario di Stato e Roberto Benigni
alla presentazione del libro
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L’OSSERVATORE ROMANO
pagina 14
giovedì 14 gennaio 2016, numero 2
La misericordia secondo Bergoglio
DA PAGINA 13
chiamato, chiedendomi di aggiungere: “o abbiamo almeno il desiderio
di muoverlo”, un’espressione che io
avevo maldestramente lasciato cadere nel lavoro di sintesi. In questa aggiunta, o meglio in questo testo correttamente ripristinato c’è tutto il
cuore del Pastore che cerca di uniformarsi al cuore misericordioso di
Dio e non lascia nulla di intentato
per raggiungere il peccatore».
A Dio basta ogni minimo spiraglio e, se manca la forza di fare un
passo verso di Lui, basta il desiderio
di compiere quel passo, perché
l’azione della Grazia possa avere inizio.
Alla domanda sul perché oggi
l’umanità abbia così bisogno di misericordia, il Papa nel libro risponde:
«Perché
è
un’umanità
ferita,
un’umanità che porta ferite profonde. Non sa come curarle o crede che
non sia proprio possibile curarle. E
non ci sono soltanto le malattie sociali e le persone ferite dalla povertà,
dall’esclusione sociale, dalle tante
schiavitù del terzo millennio. Anche
il relativismo ferisce tanto le persone: tutto sembra uguale, tutto sembra lo stesso. Questa umanità ha bisogno di misericordia. Pio XII, più
di mezzo secolo fa, aveva detto che
il dramma della nostra epoca era
l’aver smarrito il senso del peccato,
la coscienza del peccato. A questo si
aggiunge oggi anche il dramma di
considerare il nostro male, il nostro
peccato, come incurabile, come qualcosa che non può essere guarito e
perdonato. Manca l’esperienza concreta della misericordia. La fragilità
dei tempi in cui viviamo è anche
questa: credere che non esista possibilità di riscatto, una mano che ti
rialza, un abbraccio che ti salva, ti
perdona, ti risolleva, ti inonda di un
Discrezione
e civiltà
DA PAGINA 8
gioia di adorazione semplice e intensa nel Dio che venerano.
D all’India al Pakistan, dal Marocco all’isola Mauritius, le diverse
confraternite si sono date il cambio in un crescendo che non si
potrebbe definire se non mistico.
Due momenti tra i tanti sono stati di un’intensità particolare: il
gruppo diretto da Shuaib Mustaq
Qawwali, che ha portato un entusiasmo tutto fraterno nel lodare la
maestà divina e il gruppo Rouh
Meknes diretto da Yassine Habibi, una delle migliori voci di tutto
il Medio oriente. Alla serata erano presenti vari membri del gruppo interreligioso Artigiani di pace
(Artisans de paix), i quali hanno
testimoniato insieme ai sufi che è
possibile superare le barriere che
dividono oriente e occidente.
Ripensando a queste due semplici e quasi invisibili iniziative,
una volta di più, si può pensare
che è nella discrezione che si sta
creando una nuova e vera civiltà
di pace.
Arcabas, «Il figliol prodigo»
amore infinito, paziente, indulgente;
ti rimette in carreggiata. Abbiamo
bisogno di misericordia».
Qui, mi sembra, Francesco tocca
un altro punto sensibile, un’altra caratteristica del nostro tempo. Abbiamo smarrito il senso del peccato, ma
abbiamo anche smarrito la fiducia
nella possibilità di trovare una luce,
un appiglio che ci permetta di uscire
dalla disperazione, dal nostro errore,
dalle gabbie che talvolta ci costruiamo.
La nostra società, che oggi amiamo definire «liquida», sembra aver
perduto non soltanto il senso di ciò
che è male, ma anche la fede
nell’esistenza di Qualcuno che possa
salvarci, rigenerarci, accoglierci sempre, risollevarci quando cadiamo.
Mi ha colpito leggere la reazione
degli alunni di una scuola del Nord
Italia di fronte alla proposta dell’insegnante di religione che aveva chiesto di scrivere un tema libero basato
sulla parabola del figliol prodigo. Il
finale scelto dalla stragrande maggioranza dei ragazzi è stato questo:
il padre riceve il “figliol prodigo”, lo
punisce severamente e lo fa vivere
con i suoi servi. Così impara a sperperare tutte le ricchezze di famiglia».
Una reazione tutto sommato molto umana, tipica di chi, sperimentando troppo poco la misericordia di
Dio, fatica a comprenderla. Non
possiamo nascondercelo: tutti noi,
saremmo, in fondo, portati a ragionare nello stesso modo. Il Papa
commenta questo episodio con poche efficaci parole: «Ma questa — dice — è una reazione umana. La reazione del figlio maggiore, è umana.
Invece la misericordia di Dio è divina».
La misericordia di Dio è l’irruzione nelle nostre vite di un altro criterio, di un criterio nuovo: lontanissimo dai nostri calcoli, dai nostri
umani ragionamenti sulla giustizia,
dalla nostra «etica del bilancino».
Eppure è proprio di questo che abbiamo bisogno noi e tutti coloro che
ci capita di incontrare ogni giorno.
Come sempre, uno sguardo alle
pagine del Vangelo ci aiuta a focalizzare questa dinamica, che siamo
chiamati a riscoprire e a imparare
sempre di nuovo. Gli evangelisti descrivono e ci restituiscono con la vivacità della testimonianza oculare alcuni incontri di Gesù: quando perdona l’adultera, quando alza lo
sguardo verso Zaccheo, quando
chiama Matteo. L’abbraccio della
misericordia, il sentirsi guardati e
amati in quel modo da Gesù, cambia la vita. E questo cambiamento
non è innanzitutto l’esito di un nostro sforzo, o il premio per la nostra
ascesi.
Non è il risultato di una nostra
predisposizione, né la conseguenza
di particolari premesse o pre-condizioni. È piuttosto l’arrendersi di
fronte a un dono inaspettato e più
grande, di fronte a un amore più
grande. Ed è in questo abbraccio,
nell’incontro con il sovrabbondare
della grazia che noi ci scopriamo
piccoli, peccatori, bisognosi d’aiuto.
Per sperimentare la misericordia di
Dio bisogna riconoscersi peccatori, e
anche riconoscersi peccatori «è una
grazia», ci dice il Papa.
Afferma Papa Francesco: «La
Chiesa condanna il peccato perché
deve dire la verità. Ma allo stesso
tempo abbraccia il peccatore che si
riconosce tale, lo avvicina, gli parla
della misericordia infinita di Dio.
Gesù ha perdonato persino quelli
che lo hanno messo in croce e lo
hanno disprezzato. Dobbiamo tornare al Vangelo. Là troviamo che non
si parla solo di accoglienza o di perdono, ma si parla di “festa” per il figlio che ritorna. L’espressione della
misericordia è la gioia della festa,
che troviamo bene espressa nel Vangelo di Luca: “Ci sarà più gioia in
cielo per un peccatore convertito che
per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione” (15, 7).
Non dice se poi dovesse ricadere,
tornare indietro, compiere ancora
peccati, che si arrangi da solo! No,
perché a Pietro che gli domandava
quante volte bisogna perdonare, Gesù ha detto: “settanta volte sette”
(Matteo 18, 22), cioè sempre».
Vorrei infine soffermarmi su un altro risvolto della misericordia: quello
sociale e politico, che attiene anche
ai rapporti internazionali. Nel libro
il Papa ricorda che il cristianesimo
ha assunto l’eredità della tradizione
ebraica, l’insegnamento dei Profeti
sulla protezione dell’orfano, della vedova e dello straniero. E ricorda anche l’importanza della misericordia e
del perdono nei rapporti sociali e
nelle relazioni tra gli Stati. San Giovanni Paolo II, nel Messaggio per la
Giornata Mondiale della Pace del
2002, all’indomani degli attacchi terroristici negli Stati Uniti, aveva affermato che non c’è giustizia senza
perdono e che la capacità di perdono sta alla base di ogni progetto di
una società futura più giusta e solidale. La risposta violenta alla violenza, rischia infatti di alimentare una
spirale di conflitti senza fine. Ecco
perché Papa Wojtyła, anche in quel
drammatico frangente — per certi
versi non molto dissimile da quelli
che ci troviamo a vivere oggi — aveva ribadito che la misericordia e il
perdono permettono il realizzarsi
della vera giustizia.
Ho voluto concludere ricordando
questi aspetti che riguardano la vita
delle società e degli Stati, per far
comprendere come il messaggio del
Papa, il messaggio cristiano della
misericordia e del perdono, le tante
Porte Sante che vengono spalancate,
il richiamo a lasciarci abbracciare
dall’amore di Dio, è qualcosa che
non riguarda soltanto la conversione
di ciascuno di noi, la salvezza
dell’anima di ogni singola persona.
È qualcosa che ci riguarda anche
come popolo, come società, come
Paese e può aiutarci a costruire rapporti nuovi e più fraterni, perché,
chi ha sperimentato su di sé il sovrabbondare della grazia nell’abbraccio di misericordia, chi è stato e continua ad essere perdonato, può restituire almeno un po’ di ciò che ha
gratuitamente ricevuto: «Ciò che volete gli uomini facciano a voi, anche
voi fatelo a loro (...) Amate i vostri
nemici, fate del bene e prestate senza sperarne nulla, e il vostro premio
sarà grande e sarete figli dell’Altissimo; perché egli è benevolo verso gli
ingrati e i malvagi. Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre
vostro» (Luca 6, 27-36).
L’OSSERVATORE ROMANO
numero 2, giovedì 14 gennaio 2016
pagina 15
Lo spirito del concilio
Per una crescente
perfezione
Pubblichiamo il discorso tenuto da Paolo VI
all’udienza generale di mercoledì 29 dicembre 1965.
iletti Figli e Figlie! Ancora, ed ancora per
lungo tempo, sarà tema dei Nostri incontri con i visitatori, che a quest’udienza
settimanale Ci recano la testimonianza dell’adesione dei figli fedeli alla vita della Chiesa, sarà
tema il Concilio testé concluso; e ciò faremo non
tanto per illustrarne la memoria quanto per continuarne l’efficacia. È stato detto, e lo ripetiamo,
che la validità pratica del Concilio, spirituale e
pastorale, si misura nel periodo successivo alla
sua celebrazione, perché tale validità dipende
dalla applicazione effettiva e concreta degli insegnamenti emanati dal Concilio stesso. È perciò
importante che nell’ambito ecclesiale, nei nuclei
specialmente dei fedeli più fedeli, del Clero e dei
Religiosi, dei Cattolici coscienti ed impegnati, rimanga la persuasione che il Concilio è tuttora
operante; anzi, che esso diventa operante dopo
la sua chiusura.
Questo stato d’animo è stato definito «lo spirito del Concilio». L’espressione è molto alta e
bella; ma esige d’essere precisata per non diventare vaga e feconda di idee approssimative e
fors’anche pericolose. Che cosa s’intende per
«spirito del Concilio»?
Non è in questa sede, né con poche parole
che se ne può fare una analisi adeguata, né identificare i riferimenti storici e spirituali caratteristici di tale spirito. Contentiamoci di fermarci, in
questo momento, ad alcuni aspetti descrittivi; ad
uno, almeno, dell’animazione ideale e morale,
che può utilmente derivare nel Popolo di Dio
dalla celebrazione d’un Concilio, di questo secondo Concilio Ecumenico Vaticano in modo
speciale.
Il primo aspetto dello spirito del Concilio è il
fervore. È chiaro. A tale primissimo scopo mirava il Concilio, a infondere cioè nel Popolo di
Dio risveglio, consapevolezza, buon volere, devozione, zelo, propositi nuovi, speranze nuove,
attività nuove, energia spirituale, fuoco. Ricordiamo le parole di Papa Giovanni: «La Chiesa,
illuminata dalla luce di questo Concilio, sarà ricolma di spirituali ricchezze, com’è Nostra fiducia, e traendo da esso vigore di nuove energie,
potrà guardare verso l’avvenire» (Discorsi, 1962,
p. 581).
È, questo fervore, congenito con la vocazione
della vita cristiana; ed è il segreto della sua perenne vivacità; ricordiamo la parola di Gesù:
«Sono venuto a portare fuoco sulla terra, e che
cosa desidero se non che si accenda?» (Luca 12,
49); e quella di San Paolo, che raccomanda ai
primi fedeli di essere spiritu ferventes, fervorosi
nello spirito (Romani 12, 11); ed il seguito di tutta l’educazione cristiana, che squalifica la tepidezza (cfr. Apocalisse 3, 16), e che tende a mettere
l’anima in uno stato di tensione permanente, in
un’intensità di fede e di carità, in un entusiasmo
sempre ardente e fiducioso, in uno sforzo continuo di crescente perfezione, in un anelito di comunione con Cristo e di risoluta volontà di seguirlo e di servirlo, così che il dottore del fervore
spirituale, san Basilio Magno, maestro all’O riente e all’Occidente, definirà fervoroso «colui che
con ardente alacrità d’animo e con insaziabile
desiderio e indefessa cura compie la volontà di
Dio nella carità di Gesù Cristo nostro Signore»
(Regulae, 259; P. G. 31, 1255).
E che la Chiesa abbia, ancor più che bisogno,
desiderio di ritrovare il suo caratteristico fervore
D
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Paolo
VI
e Chiara Lubich
L’uomo che seppe leggere
i segni di una donna
di LUCETTA SCARAFFIA
na pagina importante
per la storia del movimento dei focolarini,
ma al tempo stesso anche del
pontificato di Montini, è raccontata in un libro (Paolo VI e
Chiara Lubich. La profezia di
una Chiesa che si fa dialogo, Roma, Edizioni Studium, 2015,
pagine 224, euro 22) dove sono
raccolte le relazioni di un convegno che si è tenuto nel 2014
sul rapporto intenso e fruttuoso
che ha unito la fondatrice Chiara Lubich e Paolo VI sin da
quando Montini era sostituto e
che è continuato, ma in modo
meno intenso, durante l’episcopato milanese. L’incontro era
avvenuto grazie alla mediazione
di una delle prime compagne di
Chiara, Eli Folonari, amica di
famiglia dei Montini, e subito
aveva preso una piega positiva
perché il prelato aveva colto
immediatamente l’importanza e
la creatività del nuovo modo di
essere cristiani proposta dalla
giovane trentina. E il rapporto
era stato rafforzato dall’adesione al movimento di Igino Giordani, amico di Montini.
I primi due saggi — di Andrea Riccardi sulla nascita dei
movimenti, e di Alberto Monticone sull’apostolato dei laici
negli anni a cavallo del concilio
— sono forse i meno nuovi e interessanti: il primo perché affronta il tema in modo acritico,
senza dare spazio o voce a chi
guardava ai movimenti con
preoccupazione. Un esempio di
storia da un punto di vista parziale, al punto da far pensare
che forse non si doveva affidare
questo tema delicato a uno storico senza dubbio di valore, ma
parte in causa in quanto fondatore di un movimento. Il secondo, di Monticone, è una rico-
U
struzione minuziosa, che però
non riesce a cogliere la specificità dei focolarini nel calderone,
ricco e vivace, delle iniziative
dei laici in quegli anni.
Molto più nuovi e interessanti i saggi successivi, sulla storia
dei rapporti fra Lubich e Montini: nell’insieme, una ricostruzione precisa e attenta, ricca di
particolari inediti che riemergono da un esame rigoroso degli
archivi.
L’aspetto più interessante
consiste proprio nella profondità e sincerità del dialogo fra i
due:
Montini
riconosce
nell’opera di Chiara la guida
dello Spirito, e la segue con
trepidazione e grande attenzione. Sa che il suo dovere sarà
quello di aiutare, ma anche
d’imparare. Imparare nuovi metodi per l’apostolato dei laici,
nuove vie per realizzare l’ecumenismo, e — ma questo gli autori dei diversi saggi non lo notano — per iniziare un nuovo tipo di collaborazione fra la gerarchia ecclesiastica e le donne.
Collaborazione in cui una
donna, Chiara Lubich, viene
ascoltata, in parte anche seguita. E a lei verranno affidati via
via compiti sempre più importanti. L’esempio più fruttuoso
di questa collaborazione è nella
pratica dell’ecumenismo. Paolo
VI è tra i primi a comprendere
la mistica della fondatrice — il
suo programma «perché tutti
siano uno» costituisce la base
apostolica dell’ecumenismo — e
a indirizzare il movimento in
questa direzione: sia attraverso
l’apostolato nei paesi del blocco
comunista, che segue con emozione e soddisfazione e riguarda anche il rapporto con i non
credenti; sia con le altre confessioni cristiane, in particolare luterani e ortodossi.
Ed è con questi ultimi che il
rapporto si farà più fruttuoso
grazie al lavoro instancabile di
Lubich, che costruisce con pazienza, tempo e naturalmente
amore l’amicizia con il patriarca
Atenagora. Tra il 1967 e il 1972
Chiara fu il tramite ufficioso fra
quest’ultimo e il papa, spinti
dall’anelito di Atenagora a «celebrare insieme, nell’unico calice», ristabilendo, dopo mille
anni, la piena comunione con
la Chiesa di Roma.
Lubich, nel 1967, in un incontro privato con Paolo VI,
aveva infatti ricevuto la consegna di mantenere, come movimento, rapporti con le Chiese
ortodosse. In questa fase, la
presenza e l’instancabile attività
di tanti focolarini nell’intrecciare legami di amicizia, momenti
comuni di preghiera e di attività caritativa, hanno fatto sì che
questo riavvicinamento non fosse solo un’operazione di vertice,
una questione teologica e di
politica religiosa, ma la nascita
di una nuova e vera amicizia
spirituale. Paolo VI lo capiva
benissimo, tanto da parlare di
«riavvicinamento
ecumenico
autentico». E così spiegava i
motivi della sua fiducia: «Anche loro devono sapere che
questo movimento così condotto, con lealtà, senza volere bruciare le tappe, ma volendo davvero trovare dell’amicizia, dà
modo di risolvere anche le questioni reali teologiche per una
crescente unità. A noi dà molto
piacere, e merita il nostro augurio e la nostra benedizione».
Paolo VI svolse un ruolo decisivo nel sostegno all’Opera di
Maria, l’insieme delle iniziative
focolarine, che riceve proprio
da lui, il 5 dicembre 1964, l’approvazione definitiva. Montini
aveva guidato per anni Chiara
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L’OSSERVATORE ROMANO
pagina 16
giovedì 14 gennaio 2016, numero 2
L’Italia vista dagli altri
Un grand tour fotografico
di GAETANO VALLINI
osì come per secoli lo è stata
per scrittori e pittori, l’Italia è
divenuta fonte d’ispirazione
anche per i fotografi, non solo quelli
nostrani, ma anche per quanti, provenienti da ogni parte del globo,
hanno voluto affrontare il grand
tour in tempi più recenti armati di
macchina fotografica. Natura, arte e
tradizioni hanno fornito soggetti impareggiabili alla creatività di grandi
maestri, e alcune loro immagini del
Belpaese sono entrate nella storia
della fotografia. A dar conto di questi viaggi, più o meno lunghi, spesso
ripetuti nel tempo, è la mostra Henri
Cartier-Bresson e gli altri — I grandi
fotografi e l’Italia allestita fino al 7
febbraio al Palazzo della Ragione
Fotografia di Milano, seconda tappa
dell’evento «Italia Inside Out» che
a marzo 2015 aveva visto una prima
esposizione dedicata ai fotografi italiani.
Trentacinque gli artisti scelti dalla
curatrice Giovanna Calvenzi per raccontare come i grandi maestri internazionali, ma anche autori meno noti al grande pubblico, hanno visto
l’Italia in un arco di tempo di quasi
ottant’anni. Le loro opere sono state
C
Lo spirito
del concilio
DA PAGINA 15
lo dimostrano, da un lato, i tanti e
più vari fenomeni della sua vita
contemporanea, e dall’altro la decadenza di tante forme di cristianesimo, pervase e corrose dalle
correnti profane e pagane e negatrici della vita moderna. Un desiderio di autenticità, di generosità,
di perfezione e di santità percorre
tutta la compagine del Popolo di
Dio, per una risvegliata coscienza
della sua vocazione e per un più
vivo istinto di difesa dall’invadenza dello spirito del tempo ed anche per un risorto ardimento apostolico di infondere nel mondo
moderno, qual è, il fermento salutare del messaggio evangelico. La
Chiesa post-conciliare entra in
uno stato di fervore, se coerente al
genio del Concilio, se fedele
all’ispirazione del Signore, se docile alle sue proprie leggi.
Ed è a questo fervore che Noi
vi invitiamo, cari Nostri Visitatori:
a rendervi persuasi della sua necessità e della sua tempestività; a
farvi riflettere come un tale fatto
spirituale riguardi non solo la
Chiesa come comunità, ma il singolo fedele altresì, come membro
vivo e responsabile nel Corpo mistico di Cristo; a infondervi quella
fiducia e quell’alacrità, che, deve
distinguere il periodo, che stiamo
iniziando, come una stagione primaverile della cristianità. Invito e
presagio che accompagniamo con
la Nostra Benedizione Apostolica.
suddivise in sette aree tematiche,
all’interno delle quali si sviluppa indirettamente anche una storia della
fotografia e dell’evoluzione dei suoi
linguaggi. Il lungo viaggio — corredato da un accurato catalogo (Roma-Milano, GAmm Giunti e Contrasto, 2015, pagine 280, euro 39) —
inizia dando conto della fotografia
umanista, con un singolare autoritratto di Henri Cartier-Bresson del
1933. Nel suo tour italiano, fatto di
ritorni e durato trent’anni, l’intento
di fermare il tempo cogliendo il momento decisivo si concentra su città
piccole e grandi, anche se è Roma a
suggestionarlo di più.
Dopo Cartier-Bresson, è la volta
di un altro grande della Magnum
Photos, Robert Capa, con il reportage al seguito delle truppe americane
durante la campagna d’Italia del
1943, in particolare dopo lo sbarco
in Sicilia. Segue l’elegante rilettura
del mondo della fede compiuta da
David Seymour, da una Milano del
1955 che saluta l’arcivescovo Montini, futuro Paolo VI, in una delle sue
visite pastorali, alla settimana santa
di San Fratello (Messina), passando
per i “Misteri” di Campobasso. C’è
poi il fascino che un’Italia minore
esercita su Cuchi White, allora stu-
Henri Cartier-Bresson, «Firenze» (1933)
© Fondation Henri Cartier-Bresson, Paris / Magnum Photos
dentessa di fotografia, attratta dalla
grandezza della storia ma ancor più
dalla fragilità dei luoghi da essa segnati. La visione umanista si stempera poi nelle luci classiche del rac-
Paolo
DA PAGINA 15
nel difficile percorso teso a ottenere
il riconoscimento ecclesiastico di un
gruppo del tutto originale, retto al
cuore da una intuizione mistica —
«il Cristo tra noi» — e con il fine
dell’unità. Un gruppo riunito intorno a Chiara che, partito da alcune
ragazze trentine, si era allargato fino
ad accogliere anche uomini e perfino sacerdoti, laici consacrati ma anche coppie di coniugi, persone di
estrazione sociale diversissima, di
professioni differenti, provenienze
geografiche diverse, tenuto insieme
dal carisma dell’unità.
Si può ben capire come questa
nuovissima costellazione avesse su-
VI
conto che Herbert List fa di Napoli
a cavallo tra i Cinquanta e i Sessanta o nella visione sanguigna di RoCONTINUA A PAGINA 18
e Chiara Lubich
scitato nella Chiesa molte e forti
perplessità: veniva rimproverata una
esaltazione collettiva, una familiarità
eccessiva tra i due sessi, una sottovalutazione degli effetti del peccato
originale, uno pseudo misticismo
naturalistico e altre obiezioni di questo tipo. Arrivando quasi alla decisione di sciogliere il movimento. Da
una parte l’umiltà di Chiara, che interpretava tutti gli ostacoli come un
invito alla purificazione e al miglioramento, dall’altra l’aiuto costante di
Montini, riuscirono però a rovesciare la situazione, che ebbe finalmente
un esito positivo.
Ma come realizzare l’unità fra i
diversi rami — maschile, femminile,
dei coniugati e sacerdotale — che si
L’interno del santuario di Maria Theotokos a Loppiano
erano delineati? Come codificare
una regola nata dall’esperienza e
«dettata via via dalla vita»? Chiara
paragona il costituirsi dell’Opera a
una creatura che nasce al mondo:
«Nasce così, senza la carta di identità. Poi quando cresce si fa la carta
d’identità che è ricavata dalla persona». La soluzione che ne garantiva
l’unità si trovò nella creazione di un
consiglio direttivo di laici, che ne
avrebbe coordinato le iniziative. Più
tardi si sarebbe deciso che la presidenza del consiglio sarebbe stata
sempre conferita a una donna, affiancata da una figura maschile di
vicepresidente.
Dalla lettura di questi saggi si
percepisce la singolarità del movimento, e la grande attrattiva esercitata su Montini, che ne leggeva
commosso i segni dell’azione dello
Spirito in una direzione completamente nuova, mai sperimentata dalla Chiesa. Ma nessuno di essi mette
a fuoco il tema femminile: il movimento nasce dall’imitazione di Maria nel suo rapporto con Gesù, da
parte di un gruppo di ragazze, laiche, da una leadership quindi tutta
femminile. Anche i sacerdoti che ne
fanno parte accettano questa gerarchia rivoluzionaria, che fa dei focolarini un movimento all’avanguardia
per quanto riguarda il posto della
donna nella Chiesa. Lubich infatti,
con il suo sguardo profetico, aveva
fin da subito pensato a una collaborazione tra donne e uomini che non
vedeva le prime in un ruolo subordinato, ma al vertice di progetti e iniziative. Il primo passo di una rivoluzione da venire, ma necessaria.
L’OSSERVATORE ROMANO
numero 2, giovedì 14 gennaio 2016
pagina 17
Il segretario di Stato ai microfoni di Radio vaticana
Nel segno della trasparenza
«Poiché Papa Francesco insiste molto sulla dimensione missionaria della Chiesa e sulla necessità di
riformarne le strutture, in primis la Curia romana,
per diventare trasparenza di Gesù, il compito di
segretario di Stato risuona per me come un appello particolare e urgente a essere un testimone credibile e a mettermi in atteggiamento di costante e
sincera conversione». Il cardinale Pietro Parolin
interpreta così la propria missione di primo collaboratore del Pontefice. Ne ha parlato ai micr0foni
di Radio vaticana in un’intervista condotta da Vito
Magno e trasmessa sabato 9 gennaio.
Nella conversazione il porporato spiega di vivere l’alto incarico «come una grazia, perché è davvero un dono grande del Signore essere vicino al
successore di Pietro nel compito di confermare i
fratelli nella fede e tenerli uniti nella comunione
della Chiesa»; ma confida anche di avvertire «una
grossa responsabilità», dovendo offrire «un contributo il più competente ed efficace possibile, nel
momento così difficile e complesso che sta vivendo l’intera umanità». E in tal senso esprime il desiderio di poter «essere capace, sull’esempio del
Papa, di mostrare sempre, anche nelle questioni
più spiccatamente burocratiche, il volto accogliente e misericordioso della Chiesa gerarchica».
Il colloquio si apre con l’affermazione che è
possibile conciliare diplomazia e sacerdozio. «Altrimenti — commenta il segretario di Stato — non
avrei accettato di impegnare la mia vita in questo
ambito così “particolare” della vita della Chiesa.
Negli anni della formazione avevo ben altre idee
circa il mio ministero. Pensavo che, diventato sa-
cerdote, avrei lavorato in parrocchia o in seminario. Di fatto, sono stato per alcuni anni viceparroco; poi improvvisamente e con mia stessa sorpresa
è stato chiesto al mio vescovo di mettermi a disposizione della Santa Sede per il servizio diplomatico». Ma, aggiunge, «mai ho trovato questo
servizio incompatibile con il ministero sacerdotale. Ho sempre cercato di esercitare il ministero anche nei periodi in cui il lavoro mi prendeva di
più. E poi mi sono sempre proposto di vivere la
diplomazia come sacerdote e da sacerdote. In varie occasioni ho notato che in questa veste potevo
dire una parola dove altri non avevano voce per
farlo; una parola che forse non ha cambiato le cose, ma che era importante dire in quel momento.
Naturalmente le maniere di aiutare gli altri sono
molteplici, ma anche attraverso il servizio diplomatico della Santa Sede si può annunciare il Vangelo e impregnare la società dei suoi valori». Del
resto, ha detto ancora, i «rappresentanti pontifici,
nei limiti del possibile, coniugano le attività legate al loro ufficio con quelle più specificamente pastorali. Incontrare le comunità cristiane, celebrare
per loro l’Eucaristia, amministrare i sacramenti,
sono stati i momenti più belli della mia attività
come nunzio apostolico in Venezuela. Li ricordo
con gioia e un po’ li rimpiango».
Nel colloquio il cardinale Parolin tocca diversi
temi, tra i quali quello degli scandali che coinvolgono sacerdoti, spesso associati — fa notare l’intervistatore — alla legge canonica del celibato.
Dopo aver constatato che «vivere il celibato nella
società attuale, per le caratteristiche che tutti co-
nosciamo, è meno facile rispetto a un tempo», il
segretario di Stato ribadisce tuttavia che «il celibato è e rimane un grande dono che il Signore ha
fatto alla Chiesa, di cui essere profondamente
grati, e non è certamente esso la causa degli scandali. Cause ne sono l’immaturità e la fragilità delle persone, la loro malizia, la scarsa formazione,
l’insufficiente discernimento». Pertanto, aggiunge,
«uno dei principali sforzi da mettere in atto è
quello di una seria ed efficace educazione affettiva, da cominciare nella famiglia, affiancata dalla
scuola, e proseguire poi nel tempo del seminario,
che tenda alla maturazione dell’amore fino alla
sua maturità, che è il dono di sé e che si può vivere in pienezza sia nella forma del matrimonio
sia nel celibato».
Sollecitato dalle domande, il cardinale Parolin
parla anche del sacerdozio in generale, delle confessioni e dell’anno santo straordinario, soffermandosi in particolare sul ruolo della misericordia
nelle altre religioni. «Nel corso del giubileo —
chiarisce al riguardo — si dovrà fare attenzione
anche a questo aspetto, come sottolinea il Papa
nella bolla Misericordiae vultus. Il pensiero corre
soprattutto al terribile fenomeno della giustificazione dell’odio e della violenza in nome di Dio.
C’è uno spazio, dunque, e direi di più, c’è un obbligo per i fedeli di tutte le religioni di combattere questa degenerazione della religione, testimoniando concretamente, da soli e soprattutto insieme, che Dio è misericordia e amore».
Il segretario generale della Cei su migranti e unioni civili
In vista della Giornata mondiale del rifugiato
Risposte serie e meditate
Parrocchie che si aprono
Sull’emergenza migranti, anche se
«la realtà è complessa», le risposte
che si stanno dando in Europa sono
«confuse e spesso emotive», al pari
della reazione delle persone. È quanto ha affermato il segretario generale
della Conferenza episcopale italiana
(Cei), il vescovo Nunzio Galantino,
nel corso di un’intervista andata in
onda nei giorni scorsi su Tv2000.
«Abbiamo bisogno — ha aggiunto il
presule — di gente più seria nella politica, di gente che questi problemi
non li tratti come emergenze ma come un fatto che caratterizza la nostra
convivenza e realtà non solo europea.
Ci vuole gente che ci metta la testa e
che sia meno attenta alle beghe di
cortile».
Le frontiere — ha detto ancora Galantino — «non le chiuderei nella misura in cui queste venissero veramente rispettate. Quando le persone entrano in un Paese si deve capire chi
sono realmente, cosa vogliono fare e
dove devono andare. Non si possono
aprire le frontiere e far entrare la gente comunque perché sarebbe un tradimento e un’illusione anche per loro. Quindi se è negativo ritrattare
Schengen, non è neanche positivo far
finta che non esista tale realtà».
Il segretario generale della Cei ha
parlato anche delle proposte di legge
riguardanti le unioni civili in Italia,
che, «inevitabilmente, sta toccando la
politica» e andrebbe «affrontato con
serietà e non in maniera ideologica».
Lo Stato, ha aggiunto, «deve fare il
suo mestiere e garantire ai singoli i
propri diritti ma questo non può andare a scapito della famiglia composta da padre, madre e figli. Bisogna
cercare di non fare confusione cercando di annacquare la realtà della
famiglia così come la Costituzione la
presenta. La famiglia non è un bene
della Chiesa ma della società».
Sono 27.000 i migranti ospitati oggi in parrocchie, comunità religiose, monasteri e santuari di tutta
Italia. Erano 23.000 il 6 settembre
2015, giorno in cui, durante l’Angelus, il Papa rivolse un appello a
esprimere la concretezza del Vangelo, accogliendo una famiglia di
profughi. Da allora la disponibilità è aumentata, da mille a cinquemila posti complessivamente, e
«soprattutto laddove i comuni sono stati latitanti è cresciuto l’impegno dell’accoglienza ecclesiale. In
Lombardia una persona su due è
accolta presso strutture della Chiesa». Dati forniti da monsignor
Gian Carlo Perego, direttore generale della Fondazione Migrantes,
durante la conferenza stampa di
presentazione delle iniziative della
Chiesa italiana per la della Giornata mondiale del migrante e del
rifugiato che si celebra domenica
17 gennaio. Perego ha fra l’altro
annunciato
l’intenzione
della
Chiesa italiana di compiere una rilevazione completa a un anno
dall’appello del Pontefice.
Il vescovo Guerino Di Tora, ausiliare di Roma e presidente della
Commissione episcopale per le migrazioni e della Fondazione Migrantes, ha detto che «i nostri fratelli migranti sono fragili, vittime
della mobilità obbligata dalle circostanze del luogo, e quindi, alla
luce di un volto nuovo delle migrazioni, l’unica via percorribile
che Francesco vede è quella della
misericordia». Perciò la Giornata
del migrante «diventa un momen-
to particolare, un gesto concreto
che caratterizza il Giubileo della
misericordia che stiamo vivendo».
E sull’argomento è intervenuto
anche il presidente della Repubblica italiana, Sergio Mattarella, in
un messaggio inviato inviato alla
Fondazione Migrantes. «La costante opera di sensibilizzazione
nei confronti di quanti fuggono da
guerre, persecuzioni, miseria e migrazioni forzate, e che guardano
all’Europa come a un luogo di futuro e di speranza — ha scritto il
capo dello Stato — è ancora più significativa in un contesto di mobilità umana imposta con la violenza, senza precedenti in epoca moderna, nel quale i valori fondamentali della civile convivenza
sembrano messi in discussione da
disuguaglianze, ingiustizie, contrapposizioni e conflitti, talvolta
ispirati a estremismi di presunta
matrice religiosa».
Per svolgere un’azione realmente efficace, garantendo protezione
a quanti hanno diritto all’asilo e,
insieme, sicurezza alle comunità di
accoglienza, occorrono — sottolinea il presidente Mattarella —
«politiche comuni in grado di governare oltre l’emergenza, fenomeni di portata epocale, espressione
dell’ineludibile interdipendenza di
un mondo globalizzato. È necessaria una più stretta cooperazione
internazionale in materia di riconoscimento e ricollocazione dei rifugiati, mirata a contrastare i transiti irregolari, insieme al traffico e
allo sfruttamento di esseri umani».
L’OSSERVATORE ROMANO
pagina 18
Per riflettere
sulla Scrittura
giovedì 14 gennaio 2016, numero 2
NOSTRE INFORMAZIONI
Il Santo Padre ha nominato Membro dell’Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica l’Eminentissimo Cardinale Ricardo
Blázquez Pérez, Arcivescovo di Valladolid
(Spagna).
Il Santo Padre ha accettato la rinuncia al
governo pastorale della Diocesi di Vitoria
(Spagna), presentata da Sua Eccellenza Monsignor Miguel José Asurmendi Aramendía,
S.D.B., in conformità al canone 401 § 1 del Codice di Diritto Canonico.
gusto de Oliveira Azevedo, Rettore del Seminario Maggiore di Porto, assegnandogli la Sede titolare vescovile di Cemeriniano.
(9 gennaio 2016)
Provvista di Chiesa
Il Santo Padre ha nominato Vescovo di
Port-Gentil (Gabon) il Reverendo Euzébius
Chinekezy Ogbonna Managwu, Vicario Episcopale dell’Arcidiocesi di Libreville.
Dalle Chiese Orientali
Provvista di Chiesa
Il Santo Padre ha nominato Vescovo di Vitoria (Spagna) il Reverendo Juan Carlos Elizalde Espinal, del clero dell’Arcidiocesi di
Pamplona y Tudela, finora Vicario Episcopale.
(8 gennaio 2016)
Nomina
di Vescovo Ausiliare
«Gesù predica nella sinagoga di Nazareth» (affresco, quattordicesimo
secolo, monastero di Visoki Dečani, Kosovo)
Domenica 24 gennaio,
III
Il Santo Padre ha nominato Ausiliare di
Porto (Portogallo) il Reverendo António Au-
del Tempo ordinario
Non chiudere la mano
di LEONARD O SAPIENZA
Le notizie che si leggono sono sempre più preoccupanti. «Esplode la povertà. Aumenta il numero degli
italiani che chiede aiuto agli sportelli della Caritas.
Sempre più cittadini italiani alla mensa dei poveri.
Otto milioni di italiani vivono con meno di mille euro
al mese. La crisi morde la vita della gente».
In una situazione così drammatica risulta ancora
più vera la parola del Vangelo che abbiamo ascoltato.
Dice Gesù: «Lo Spirito del Signore mi ha mandato a
portare ai poveri il lieto annunzio».
Gesù è stato mandato a liberare gli oppressi, a portare una parola di speranza ai poveri, a salvare l’uomo. E forse aveva ragione Don Mazzolari, quando diceva: «Gesù Cristo fa paura al mondo soprattutto per
i poveri che rappresenta».
Ma non deve fare
paura a noi, che ci diciamo seguaci di CriNeemia 8, 2-6.8-10: Lessero
sto! Il Vangelo si chiuil libro della legge e ne
de con queste parole:
compresero la lettura.
«Oggi si è compiuta
Salmo 18: Le tue parole,
questa Scrittura».
Oggi tocca a noi Signore, sono spirito e vita.
continuare ad annun- 1 Corinzi 12, 12-31: Voi siete
ciare il messaggio di corpo di Cristo
speranza portato da e sue membra, ciascuno
Cristo. Tocca a noi ri- per la sua parte.
petere quanto diceva
Luca 1, 1-4; 4, 14-21: Oggi
sant’Agostino: «Ascolquesta Scrittura si è
tami, o povero: che cocompiuta.
sa ti manca, se hai Dio
con te? E ascoltami o
ricco: che cosa mai tu
possiedi, se non hai Dio con te?».
Apriamo gli occhi e il cuore ai tanti bisogni che ci
circondano. Non viviamo nell’indifferenza. Ogni giorno si leggono notizie di poveri deceduti nei nostri sottopassi; o di anziani morti per il freddo, davanti a un
bar dove si continuava tranquillamente a bere il caffè!
Aveva ragione quel tale che diceva: «Il grido del
povero sale fino a Dio, ma purtroppo non arriva
all’orecchio dell’uomo» (Robert de Lamennais).
Siamo fin troppo facili ad accusare la società, i politici, la Chiesa; ma quando tocca a noi, ci nascondiamo
dietro attenuanti, scusanti, giustificazioni!
Ricordiamo la legge biblica: «Se in mezzo a te ci
sarà un fratello bisognoso, non indurire il tuo cuore e
non chiudere la tua mano» (Deuteronomio 15, 7).
Il Sinodo dei Vescovi della Chiesa Arcivescovile Maggiore Siro-Malabarese riunito a
Mount Saint Thomas (Kerala, India), avendo
ricevuto il Previo Assenso Pontificio, ha canonicamente eletto a norma del Codice dei canoni delle Chiese orientali (CCEO), canone
184, il Reverendo Sacerdote Jose Pulickal, finora Protosincello responsabile per il Clero,
all’ufficio di Vescovo Ausiliare dell’Eparchia
di Kanjirapally dei Siro-Malabaresi (India).
Gli è stata assegnata la Sede titolare di Lares.
(12 gennaio 2016)
L’Italia vista dagli altri
DA PAGINA 16
ma — siamo nel 1956 — attraverso l’obiettivo di
William Klein, giunto qui dalla sua New York
ispirato da Fellini. Infine Sebastião Salgado
che, con l’indiscussa capacità di cogliere nel
profondo la realtà degli uomini, racconta
l’epopea degli ultimi pescatori di tonni in Sicilia all’inizio degli anni Novanta.
Il secondo percorso si focalizza sulla fascinazione del bianco e nero. Qui la narrazione
si allontana dal reportage per conservare intatta la poesia della visione classica. Come nel
viaggio di Claude Nori che nel 1982 ripercorre
le strade dei ricordi lungo il litorale adriatico
alla ricerca di radici familiari nelle spensierate
estati italiane della sua infanzia. Così come
nella visione della capitale di Helmut Newton
che in «72 ore a Roma» ricrea una passeggiata
notturna nel centro monumentale della città,
rispettandone sì le geometrie architettoniche,
ma senza dimenticare la lezione della moda.
Ma è soprattutto nei recenti paesaggi di Guy
Mandery che il monocromatismo rivela la sua
forza descrittiva riallacciandosi alla tradizione
dei fotografi ottocenteschi.
Nel successivo passaggio le città d’arte e di
cultura diventano luoghi di interpretazione e
di sperimentazione dei diversi linguaggi offerti dalle nuove tecnologie. E se Alexey Titarenko racconta una Venezia magica, con i suoi riflessi di luce, Hiroyuki Masuyama mostra la
città lagunare con immagini che sembrano dipinti, in particolare reinterpretazioni di quadri
di Turner. Abelardo Morell, utilizzando le tecniche del “foro stenopeico”, crea invece visioni
di città nelle quali interni ed esterni si sommano. Gregory Crewdson torna al bianco e nero
per interpretare le finzioni di Cinecittà, mentre Irene Kung ricrea un’atmosfera onirica per
ritrarre i monumenti del passato e del presente di Milano.
È poi la volta dell’itinerario documentaristico. E significativa è la scelta di partire da Paul
Strand, che nel 1953 con Cesare Zavattini realizzò una delle più straordinarie opere dedicate alla realtà contadina, Un Paese. Attraverso
ritratti, nature morte e paesaggi, Strand conserva la storia di un piccolo centro emiliano,
Luzzara. A cinquant’anni di distanza ma con
lo stesso intento Thomas Struth ritrae il centro storico di Milano e Jordi Bernardó i luo-
ghi del potere di Roma, mentre Joan Fontcuberta — una scelta singolare da parte della curatrice — si focalizza sulle curiosità dei Musei
scientifici di Bologna e di Reggio Emilia.
Non manca una sezione dedicata alla denuncia, ovvero al disagio esistenziale, all’incuria e agli scempi architettonici, aspetti che la
fotografia riesce a rendere in tutta la loro
drammaticità. Ecco allora Art Kane, che
progetta immagini-sandwich per raccontare la
lenta agonia di Venezia, e Michael Ackerman,
che si concentra su una Napoli ferita, mostrata attraverso il dramma di un uomo, un
tossicomane. Jay Wolke a sua volta si cimenta
in un catalogo dell’abbandono del Mezzogiorno, un viaggio attraverso quella che egli
stesso definisce «architettura della rassegnazione».
A tutto ciò fa da contraltare il lavoro di autori che rileggono l’Italia con sguardo positivo. Tra gli altri, Joel Meyerowitz racconta la
poesia delle luci della Toscana, Harry Gruyaert i colori di un Paese che attrae milioni di
turisti. Come quelli ritratti da Martin Parr, alle prese con paesaggi e luoghi di impareggiabile bellezza e suggestione. Come Venezia, ancora lei, che affascina Steve McCurry per l’alchimia estetica che si crea tra persone e ambiente.
A chiudere il percorso espositivo vi è la narrazione autobiografica. Nobuyoshi Araki, anch’egli ammaliato da Venezia, si fotografa con
le maschere del carnevale, racconta in chiave
soggettiva i suoi incontri. Sophie Zénon sceglie invece di ripercorrere la storia della sua
famiglia, costretta a emigrare, affiancando i ritratti dei nonni ai luoghi di provenienza. Elina Brotherus, infine, colloca i suoi autoscatti
nel paesaggio, ricollegandosi così all’inizio
dell’itinerario, ovvero al modernissimo autoritratto di Henri Cartier-Bresson.
Giunti al termine di questo viaggio, tra memoria e contemporaneità, si ha la sensazione
di aver attraversato un Paese straordinario,
con le sue bellezze, la sua storia e le sue contraddizioni. Il tutto filtrato dallo sguardo originale, ma allo stesso tempo non indulgente e
disincantato, di grandi fotografi. Artisti che, a
contatto con la gente e i luoghi, hanno saputo
rivelare lo stupore di una visione diversa, capace di cogliere quanto chi vi abita per distrazione forse non è in grado di vedere.
numero 2, giovedì 14 gennaio 2016
L’OSSERVATORE ROMANO
pagina 19
Pier Paolo Pasolini racconta l’incontro con madre Teresa tra il 1960 e il 1961
di ISABELLA FARINELLI
uor Teresa è una donna anziana, bruna di pelle, perché è albanese, alta, asciutta, con due mascelle quasi virili, e
l’occhio dolce, che, dove guarda, “vede”. Assomiglia a una famosa sant’Anna di Michelangelo: e ha nei tratti impressa la bontà vera, quella descritta
da Proust nella vecchia serva Francesca: la bontà senza aloni sentimentali,
senza attese, tranquilla e tranquillizzante, potentemente pratica».
Pier Paolo Pasolini incontra e ritrae
madre Teresa di Calcutta in tempi e
modi non sospetti, al cuore di un viaggio che, a cavallo tra 1960 e 1961, con
l’occasione di un invito a una commemorazione dedicata a Tagore, lo porta
per sei settimane in giro per l’India. È
in compagnia di Alberto Moravia ed
Elsa Morante, ma, come si evince dalle
dense pagine del suo multiforme reportage L’odore dell’India (Milano,
Garzanti, 2009, recentemente ripubblicato da Rcs per il «Corriere della Sera»), il suo approccio è diverso: «ineconomico» si autodefinisce quando,
appena giunto, preferisce inoltrarsi fra
gli straccioni del porto di Bombay
mentre Moravia, «col suo meraviglioso
igienismo» e il disincanto emotivo di
chi ha già visitato gli stessi luoghi decenni prima, preferisce ritirarsi nel lussuoso Taj Mahal Hotel. Uno stile,
quello pasoliniano, che vorrebbe essere
e definirsi informale, ma in realtà, quasi suo malgrado, è farcito (con naturalezza e senza ricerca né sforzo) di riferimenti classici (come poteva esserlo
quello di un Cesare Pavese).
Con pari naturalezza e altrettanto —
e dichiaratamente — suo malgrado, il
contesto è quello di uno che proviene
e prende le misure da una cultura con
coordinate ideologiche radicate e quasi scontate, e improvvisamente, con
una sorta di sradicamento, si trova catapultato in un contesto e in una cultura dove non sembrano funzionare
neppure certi luoghi comuni — spietatamente smascherati — secondo cui
l’India può esser vista come terra «naturalmente» religiosa.
Benché Pasolini, dalla sua prospettiva comunque europea, tenda a vedere
nel subcontinente indiano un’unità più
che un coacervo, cercando fattori di
sintesi più che di diaspora, quando a
Nuova Delhi partecipa a un ricevimento all’ambasciata di Cuba (nel secondo
anniversario della rivoluzione), vedendo tra la folla due prelati cattolici, ha
la sensazione che il cattolicesimo non
coincida con il mondo e si chiede,
«per la prima volta in maniera urgente,
da che cosa fosse riempito questo im-
«S
Un occhio dolce
che dove guarda vede
Parole
facili?
di SILVIA GUIDI
l plurale del titolo non è
un dettaglio irrilevante,
spiega don Jacinto Núñez Regodón, dell’Università
pontificia di Salamanca, illustrando il contenuto del libro
Los lenguajes del Papa Francisco (Salamanca, Universidad Pontificia de Salamanca,
Cátedra Cardenal Ernesto
Ruffini, 2015, pagine 124).
«Scegliendo la forma plurale — continua Núñez Regodón, curatore del libro —
si è voluto porre in rilievo la
ricchezza dei registri della
comunicazione del Papa, anche a prescindere dagli
aspetti puramente linguistici.
Se i gesti di Francesco sono
spesso sorprendenti, non
meno sorprendenti possono
risultare le sue parole; sono
chiare e semplici, ma non
così facili come sembrano.
Per questo si rende necessaria un’ermeneutica dei linguaggi bergogliani, che hanno una loro particolare forza. E non potrebbe essere altrimenti, se ci ricordiamo di
quel giovane professore di
letteratura che riuscì a portare dai suoi alunni un grande
scrittore come Jorge Luis
Borges».
Il volume raccoglie le relazioni pronunciate durante il
convegno organizzato il 16
ottobre scorso dalla cattedra
dedicata al cardinale Ruffini
nell’Istituto
di
pastorale
dell’Università pontificia di
Salamanca nella sede di Madrid. Da Alessandro Gisotti,
di Radio Vaticana, che ha
tratteggiato un profilo umano e pastorale di Papa Francesco, a Francisco José Andrades Ledo che ha approfondito l’Evangelii gaudium,
senza dimenticare l’analisi
puntuale di frasi diventate
famose come Dios primerea
(Antonio Ávila Blanco), la
piaga della mondanità spirituale
(Gonzalo
Tejerina
Arias), l’invito ad andare
nelle periferie (Vicente Vide
Rodríguez) e la valenza pastorale ed ecclesiale di tanti
altri temi cari al Papa, citati
frequentemente nei suoi discorsi (Carlos Osoro Sierra,
arcivescovo di Madrid).
Chiude il volume un breve
testo esplicativo di Franca
Tonini, che ricorda la figura
di Ernesto Ruffini, il cardinale italiano che firmò la
bolla di creazione dell’Università pontificia di Salamanca il 25 settembre 1940 e
al quale dal 1997 è stata dedicata una cattedra di teologia che vuole favorire l’analisi e l’approfondimento degli
studi biblici, antropologici e
pastorali. Con particolare attenzione alla comprensione e
alla divulgazione della dottrina sociale della Chiesa.
I
Pier Paolo Pasolini, Alberto Moravia ed Elsa Morante durante il viaggio in India
menso mondo, questo subcontinente di
quattrocento milioni di anime».
Nella nudità emotiva dichiaratamente disarmata rispetto a Moravia,
«che si è documentato alla perfezione», e alla colta Morante, «che parla
inglese meglio di me», stabilita una
complicità di bisogni elementari con
la gente — la fame, la fatica dei «cavalli umani» da cui rifiuta di lasciarsi
trasportare in risciò —, Pasolini non
intende celare dietro il colore locale il
grottesco di situazioni e santoni «su
cui non posso che limitarmi a delle
descrizioni come quelle che ho fatto».
Tuttavia crede di intravedere una caratteristica trasversale e se ne lascia
conquistare: la dolcezza, da non confondere con la sdolcinatezza né con
un romantico struggimento.
Dolce, dolcezza ricorrono più volte
in ognuna delle sue pagine, visti come
qualità suprema di religiosità e, quasi,
di ecumenismo, connotati condivisi e
condivisibili della gente indiana. «La
non violenza è nelle sue radici, nella
ragione stessa della sua vita. Magari
qualche volta difende la sua debolezza
con un po’ di istrionismo o di insincerità: ma sono piccole ombre ai margini di tanta luce, di tanta trasparenza».
Lo colpisce la tipica gestualità
nell’annuire. «La testa va su e giù, come leggermente staccata dal collo, e le
spalle ondeggiano un po’ anch’esse,
con un gesto di giovinetta che vince il
pudore, che si erige affettuosa. Viste a
distanza le masse indiane si fissano
nella memoria, con quel gesto di assentimento, e il sorriso infantile e radioso negli occhi che l’accompagna.
La loro religione è in quel gesto».
Vi è un paradosso, apparente solo a
noi occidentali, in questa non violenza, «insomma la mitezza, la bontà degli indù: essi hanno forse perso contatto con le fonti dirette della loro religione, ma continuano a esserne dei
frutti viventi. Così la loro religione,
che è la più astratta e filosofica del
mondo in teoria, è, ora, in realtà, una
religione totalmente pratica: un modo
di vivere. Così in India, ora, più che
alla manutenzione di una religione,
l’atmosfera è propizia a qualsiasi spirito religioso pratico».
Praticità, dolcezza, spirito religioso
autentico: è su questa strada che Pasolini incontra Madre Teresa e ne percepisce la differenza e «naturalezza» rispetto ad altri esperimenti caritativi in
quella Calcutta contraddittoria che gli
appare una specie di scenario di Uccel-
lacci e uccellini. «Calcutta, la sconfinata città dove ogni dolore e disagio
umano tocca l’estremo limite, e la vita
si svolge come un balletto funebre…
Ecco i corvi, sempre presenti per tutta
l’India col loro grido cieco». Nella
hall luminosa dell’albergo, «con degli
uccelletti che vi svolazzavano liberamente», si svolge una «tetra festa»:
pure sotto nobili etichette, ribaltando i
parametri fino all’assurdo, mostrano il
loro limite anche le categorie di sottoproletariato e borghesia.
«Ma intanto, dal mucchio degli
straccioni, dei malati, dei ruffiani» si
staccano singole persone con cui l’autore entra sinceramente in dialogo.
«Ossimoro vivente» come lo definisce
Gabriella Pozzetto, «sospeso tra grazia e distanza» («Lo cerco dappertutto». Cristo nei film di Pasolini, Milano,
Ancora, 2007), dieci anni più tardi,
nel 1971, avrebbe dichiarato a Enzo
Biagi: «Evidentemente il mio sguardo
verso le cose del mondo, verso gli oggetti, è uno sguardo non naturale, non
laico. Vedo sempre le cose come un
po’ miracolose, ogni oggetto per me è
miracoloso, cioè ho una visione, in
maniera sempre informe, diciamo così
non confessionale, ma in certo qual
modo religiosa del mondo».
In nome di questo “confronto visionario” con la realtà, Pasolini è pronto
a una metodologica autocritica anche
in sede di monologo interiore. La sua
India, proprio perché refrattaria alla
«manutenzione di una religione», è lo
scenario più propizio al rivelarsi della
carità in opere. «Ho conosciuto», scrive, «dei religiosi cattolici: e devo dire
che mai lo spirito di Cristo mi è parso
così vivido e dolce; un trapianto
splendidamente riuscito».
Pronto a correggere persino il proprio “odio” verso l’atteggiamento intellettuale della colta classe politica,
ne spiega i meccanismi fatalmente
astratti, e indulge con una specie di
tenerezza sulla nuova classe media,
imbevuta di idealismo ma, almeno per
qualche generazione ancora, impotente. «La lebbra, vista da Calcutta, ha
un orizzonte di sessantamila lebbrosi,
vista da Delhi ha un orizzonte infinito». In altri termini, se per grandi
ideali e grandi programmi «c’è ben
poco da fare in quella situazione,
Suor Teresa cerca di fare qualcosa: come lei dice, solo le iniziative del suo
tipo possono servire, perché cominciano dal nulla».
L’OSSERVATORE ROMANO
pagina 20
giovedì 14 gennaio 2016, numero 2
Fenomeno
mondiale
di RINO FISICHELLA
passato un mese da quando Papa Francesco ha aperto la porta
santa di San Pietro. Nella sua
omelia aveva esplicitato il senso di
quel gesto dicendo: «Entrare per quella porta significa scoprire la profondità della misericordia del Padre che
tutti accoglie e ad ognuno va incontro
personalmente. È lui che ci cerca! È
lui che ci viene incontro! Sarà un anno in cui crescere nella convinzione
della misericordia... Attraversare la
porta santa ci faccia sentire partecipi
di questo mistero di amore, di tenerezza. Abbandoniamo ogni forma di paura e di timore, perché non si addice a
chi è amato; viviamo, piuttosto, la
gioia dell’incontro con la grazia che
tutto trasforma». Quel segno era già
stato anticipato a Bangui compiendo
un atto che immetteva una profonda
novità nella storia dei giubilei. Per la
prima volta, la porta santa veniva
aperta non nelle basiliche papali, ma
in Africa ponendo di fatto quel continente davanti al mondo perché ne
percepisse la potenzialità che possiede
per il futuro dell’umanità.
Papa Francesco desidera che il giubileo sia primariamente un avvenimento della Chiesa, vissuto in ogni
diocesi, per riscoprire la forza della
misericordia nella vita quotidiana dei
credenti. Un impegno concreto per
rendere ognuno strumento visibile di
misericordia verso tutti. Giungono da
tutto il mondo testimonianze commoventi della grande partecipazione di
popolo in occasione dell’apertura della porta santa nelle singole Chiese. Le
cattedrali e i santuari non sono bastati
per contenere il flusso di fedeli che
hanno riempito le piazze nell’attesa di
compiere il gesto simbolico del passaggio della porta santa. Un segno
concreto di quanto l’intuizione originaria di Papa Francesco fosse una reale esigenza del momento presente e
È
DA PAGINA 1
L’anno santo della misericordia da San Pietro al mondo
Un mese fa
certamente un incentivo per vivere i
prossimi anni con responsabilità missionaria. È proprio così. La grande
presenza di popolo attesta che il messaggio dell’incontro con Cristo e la
possibilità di sperimentare la tenerezza e il perdono di Dio sono percepiti
come un’esigenza personale per dare
senso agli eventi drammatici della storia di questi anni.
Tutto questo non ha impedito che
anche Roma rimanesse protagonista
del giubileo. A un mese esatto
dall’inizio dell’anno santo, abbiamo
registrato più di un milione di presenze agli eventi giubilari. Per l’esattezza
1.025.000. I numeri non sono importanti in una dimensione spirituale. Eppure sono indice di una intensa partecipazione e di un’esigenza sentita. La
decisione delle autorità civili di pedonalizzare via della Conciliazione per il
periodo natalizio ha permesso di veder riversata in questa zona tante persone che hanno sfidato paura e tenta-
tivi di marginalizzare la partecipazione
pubblica. La presenza delle forze
dell’ordine ha reso più sicuri gli eventi
e Roma ha vissuto questi giorni di festa con la dovuta serenità. Il percorso
riservato ai pellegrini mostra ogni
giorno gruppi di fedeli e singole persone che con la croce giubilare si avviano pregando verso la porta santa.
Una testimonianza di fede che commuove e non lascia indifferenti.
La misericordia è un vero contenuto
che stravolge e che, come insegna Papa
Francesco, coinvolge in un movimento
di impegno personale. Si riceve misericordia per poterla donare. Senza questa circolarità manca qualcosa di essenziale che non permette di cogliere la
profondità del mistero di amore del Padre. È trascorso il primo mese ed è iniziato un anno sempre più in crescendo
di partecipazione e di eventi che fanno
già percepire quanto il giubileo della
misericordia sia entrato nel cuore delle
persone e possa trasformare la vita.
promuovere la pace» e condanna ancora una volta attentati terroristici, massacri e
soprusi che si accaniscono su
persone inermi e indifese,
obbligando intere minoranze
— come moltissimi cristiani
del Vicino e Medio oriente,
ricordati a più riprese dal
Pontefice — a esodi drammatici, e persino al «martirio
per la sola appartenenza religiosa». E colpisce nel discorso papale l’intreccio di questi
fenomeni del nostro tempo
con l’insegnamento che viene dalle parole delle Scritture ebraiche e cristiane.
Già nel 1952, nella costituzione apostolica Exsul familia che affrontò con ampiezza il fenomeno migratorio, Pio XII evocò la famiglia
di Gesù che cercava scampo
in Egitto come modello e sostegno di tutti i profughi
che, «incalzati dalla persecuzione o dal bisogno, si vedono costretti ad abbandonare
la patria». Allo stesso modo
oggi il suo successore chiede
che si ascolti «il grido di Rachele che piange i suoi figli
perché non sono più», secondo le parole profetiche di
Geremia riprese dall’evangelista Matteo. Affinché si affrontino con umanità e con
coraggio
questi
drammi
mondiali.
g.m.v.
Il dialogo tra le religioni nel primo video del Papa per l’Apostolato della preghiera
Carisma speciale
di MARCELO FIGUEROA
a rete mondiale dell’Apostolato della preghiera, che svolge da tempo un vasto compito di diffusione delle intenzioni mensili
del Pontefice, ha aggiunto una novità significativa
con il video del Papa. Il primo della serie, diffuso
nella festa dell’Epifania, contiene, oltre ai punti
centrali del suo messaggio, segni importanti e impronte molto personali.
Non è un caso che la prima intenzione sia a favore del dialogo tra le religioni. Francesco lo considera un carisma speciale del suo pontificato. Ha
la certezza che siamo tutti figli di Dio, certezza
fondata sul racconto biblico della creazione che
dice: «Dio creò l’uomo a sua immagine e somiglianza» (Genesi, 1, 27). Da lì invita tutti a diffondere, a pregare e a collaborare con questa causa
che in Kenya ha definito «essenziale», certo «non
un lusso» né «qualcosa di aggiuntivo o di opzionale».
Su questo si fonda l’incontro tra le religioni,
non su una qualsiasi ideologia. E per questo diviene uno strumento invincibile dinanzi a quello
L
armato dei sistemi religiosi fondamentalisti. Questi cercano di giustificare la guerra, la morte e la
violenza utilizzando il nome di un dio che si vuole deformare, manipolare e uniformare. Francesco
presenta una teologia che va oltre: quella di un
Padre amorevole che, padre di tutti, cerca e si lascia trovare, nelle diverse forme di pensiero e nella ricchezza della diversità di fede. Perciò il dialogo sincero è contrario al confronto “religioso”,
perché comporta la pace e la giustizia.
Gesù portò con sé i suoi amici galilei, e tra i
sommi sacerdoti di Gerusalemme li si riconosceva
per il loro modo di parlare. Il video del Papa ha
proprio questo segno. Dei quattro rappresentanti
delle diverse confessioni che vi partecipano, tre
sono argentini e si sente da come parlano. Questo
è in sintonia con un’altra caratteristica fondamentale di Papa Bergoglio: la sua coerenza. La sua instancabile e costante dedizione al dialogo tra le
religioni è qualcosa che porta nel cuore e un’azione che svolge da almeno due decenni, quando era
a Buenos Aires.
Noi che continuiamo sulla stessa via da queste
latitudini dobbiamo riconoscere che siamo figli e
debitori della sua guida. Ecco perché, guardando
il video, da una parte ricordo gli incontri di preghiera interreligiosi in Argentina, e dall’altra i racconti evangelici di Gesù che portava con sé a pregare sul monte della Trasfigurazione o su quello
degli Ulivi i suoi tre migliori amici.
Francesco è un Papa che di continuo invita a
pregare con lui. Questa caratteristica del suo ministero come successore di Pietro ha sorpreso fin
dal suo primo saluto appena eletto. Chiedere a
un popolo di pregare per lui benedicendolo e la
frase ripetuta da una vita «pregate per me» sono
segni chiari. Non parole o atteggiamenti retorici,
ma richieste genuine, sentite e profonde. Nel video ci invita a pregare «con lui». Francesco crede
profondamente nel potere della preghiera unita.
Nella sua ultima frase mostra la sua fiducia sincera nel fatto che molti lo accompagneranno in questa fondamentale pratica spirituale. Lo faremo in
intenzione e azione a partire dalla nostra religiosità? Voglia il Dio dello shalom, della pace e del salam che così sia.